Prove tecniche per una società più equa ed inclusiva: Appunti sparsi dalla conferenza di Alzheimer Europe

Helen Rochford Brennan
Helen Rochford-Brennan (al centro), Presidente dell’Irish Dementia Working Group e del European Dementia Working Group of People with Dementia della federazione Alzheimer Europe, con la Principessa di Danimarca Benedikte (a destra) e il Ministro della Sanità danese, Sophie Lohde Jakobsen

Anche quest’anno abbiamo avuto il privilegio di partecipare alla conferenza annuale di Alzheimer Europe, la più grande federazione europea delle associazioni impegnate a sostenere le persone con demenza e i loro familiari. La conferenza ha avuto luogo nella bellissima Copenaghen dal 31 ottobre al 2 novembre scorsi con un ricchissimo calendario di seminari, simposi e poster.

Quest’anno abbiamo partecipato anche noi come associazione con una presentazione sulle comunità online di persone con demenza: un fenomeno in forte espansione in tutto il mondo che mette in discussione l’immagine stereotipata delle persone che si ammalano di questa malattia. Di questo tema però ne parleremo nel prossimo post, per oggi vogliamo invece condividere qualche appunto sulle presentazioni che più ci hanno colpito e interessato.

Prove tecniche di trasmissione per superare le discriminazioni

La prima giornata di lavori si è aperta con una sessione plenaria dedicata all’approccio alla cura e all’assistenza delle persone con demenza basato sui diritti umani nel rispetto dalla Convenzione ONU-CRPD per le persone con disabilità. Di questo argomento ne abbiamo già parlato negli scorsi mesi in merito alla dispensa realizzata da Dementia Alliance International in occasione dell’adozione formale di questo approccio da parte della federazione mondiale Alzheimer’s Disease International.

A quanto sembra, il movimento per il riconoscimento dei diritti umani delle persone con demenza sta prendendo piede velocemente anche in Europa. Lo scorso 28 giugno Alzheimer Europe ha infatti organizzato un incontro con alcuni membri del Parlamento Europeo per promuovere tale approccio anche nell’ambito delle politiche europee.

In realtà, il movimento per i diritti delle persone con disabilità negli ultimi mesi è stato particolarmente attivo a livello europeo grazie alla relazione presentata la scorsa primavera dalla parlamentare EU belga, Helga Stevens. La relazione contiene le linee guida per l’implementazione di nuove politiche sociali e socio-sanitarie in ambito UE congruenti con i principi e gli articoli previsti dalla Convenzione ONU-CRPD. La risposta del Parlamento Europeo a tale sollecitazione è arrivata lo scorso 7 luglio 2016 quando ha adottato una risoluzione che chiede alla Commissione Europea e al Consiglio Europeo di implementare le osservazioni finali riportate nella relazione di cui sopra. Il rapporto, disponibile in italiano a questo link, è importante perché promuove ulteriori passi in ambito EU per facilitare la transizione da un concetto di disabilità basato su un modello medico e individualistico al modello sociale. Quest’ultimo sposta l’attenzione dalle limitazioni funzionali delle persone con disabilità ai problemi causati dagli ambienti disabilitanti, da barriere e da culture che rendono disabili. Grazie al suo approccio olistico, il modello sociale della disabilità tiene conto sia della persona che del suo ambiente di vita e permette una visione del diritti fondamentali delle persone con disabilità più ampia che mira alla loro partecipazione e al loro contribuito nella società in quanto cittadini a pieno titolo.

Per le persone con demenza, riconoscersi in questo movimento e appellarsi alla Convenzione ONU-CRPD significa reclamare tutta una serie di diritti di partecipazione, autonomia, auto-determinazione, rispetto, dignità e sostegno che finora sono stati loro negati.

Il fatto che sempre più istituzioni e governi (in primis quello della Scozia) stiano riformulando le proprie politiche di intervento in ambito demenze sulla base di tali diritti rappresenta un passo epocale per chiunque conviva con questa malattia. Il riconoscimento ufficiale di tali diritti sarà la chiave di volta per contrastare le discriminazioni di trattamento nei confronti delle persone con demenza in tutti gli aspetti della vita, dall’ambito medico a quello socio-assistenziale, da quello sociale a quello lavorativo e di vita indipendente.

Tale cambiamento richiederà sforzi istituzioni notevoli da parte dei governi internazionali. Come è stato osservato più volte durante la conferenza, sono infatti ancora pochi i piani nazionali per le demenze europee che rispecchiano i diritti previsti dalla Convenzione ONU-CRPD. A questo proposito, è stato particolarmente interessante l’intervento di Tina Leonard dell’Alzheimer Society of Ireland, l’associazione nazionale irlandese per le demenze, durante il quale ha analizzato l’attuale piano nazionale demenze irlandese (approvato nel 2016) rispetto ai principi e ai diritti previsti dalla Convenzione. Ad esempio, rispetto al principio di partecipazione, secondo la Dott.ssa Leonard, il piano irlandese attuale non fa alcuna menzione all’implementazione di una strategia specifica per promuovere una società più dementia-friendly, né fornisce gli strumenti di lavoro necessari per integrare le persone con demenza nei processi di costruzione delle politiche o dei servizi destinati a loro. Nel piano mancano anche misure specifiche affinché le persone con demenza non siano discriminate in base alla loro età, genere, religione ecc. Inoltre il piano non include misure specifiche che proteggono i diritti al lavoro delle persone con demenza – questo è un enorme problema per tutte le persone che si ammalano di demenza precocemente (ovvero sotto i 65 anni).

Io non sono un avvocato o un esperto legale, ma credo che anche il nostro attuale piano nazionale demenze contenga alcune lacune o quantomeno non descriva a sufficienza le strategie per garantire i diritti delle persone con demenza secondo i principi e gli articoli della Convenzione ONU. Sarebbe utile farne un’analisi approfondita al più presto per capire come integrare o adattare il testo attuale prima che il piano venga ufficialmente implementato da tutte le Regioni italiane. Dico questo anche perché, da quel che mi pare di capire, nel momento in cui l’approccio basato sui diritti umani sarà ufficialmente esteso dall’UE alle persone con demenza, anche il nostro governo sarà costretto a seguire le indicazioni di Bruxelles. Ricordo infine che l’Italia ha ratificato la Convenzione ONU sulla disabilità nel 2009 (il testo integrale è disponibile a questo link).

Buone pratiche per contrastare lo stigma

Diverse sessioni sono state dedicate al problema dello stigma e degli stereotipi associati alle demenze. Abbiamo trovato particolarmente utile l’intervento della sociologa danese, Christine Swane (Università di Copenaghen), la quale ha spiegate come lo stigma sia il risultato di un linguaggio inadeguato e di pratiche quotidiane che sviliscono e opprimono in maniera sistemica le persone con demenza e le loro famiglie.

Uno dei fattori più potenti che alimentano il pregiudizio è l’uso di un linguaggio riduttivo e mortificante che ricorre a termini come “demente” o “persona/paziente demente”, o ancora peggio come “guscio vuoto”, ecc. Le parole usate in questo modo riducono la persona alla sua malattia – come se la demenza fosse l’unica parte degna della nostra attenzione – e negano tutto ciò che fa di quella persona un essere umano, inclusa la sua dignità. Il fatto è che le parole e le azioni stigmatizzanti tolgono capacità di agire e di chiedere aiuto, anche quando la situazione sta precipitando. O addirittura, quando è già troppo tardi.

Ancora più problematico è che a livello istituzionale e sociale il pregiudizio si manifesta con l’offerta di alcuni servizi e non altri a supporto di chi si ammala e di chi se ne prende cura. Ad esempio, fornendo supporto e assistenza prevalentemente nelle fasi finali della malattia o solo per alcune tipologie di demenze come l’Alzheimer, escludendo in questo modo una grossa percentuale di malati.

Secondo la Dott.ssa Swane, l’immagine stereotipata che abbiamo delle persone con demenza fa in modo che nel nostro immaginario i malati “non siano più persone ma storie”, fatte di luoghi comuni inquietanti, paure e falsi miti che impediscono di comprendere la dimensione umana della malattia. Le storie che circolano sulla demenza non solo non permettono alcun senso di opportunità e speranza, ma separano in maniera irriducibile e antagonistica chi è malato da chi non lo è. Inoltre, le storie di demenza a cui siamo abituati impediscono di comprendere i reali bisogni creati dalla malattia, dall’esordio dei primi sintomi alle fasi finali. In sostanza, se manca un supporto pre- e post-diagnosi adeguato è proprio perché siamo completamente alla mercé dei nostri pregiudizi… e delle nostre paure. E’ infatti soprattutto la paura che trasforma la malattia in qualcosa di inaccettabile, incomprensibile e irrimediabile.

Per la Dott.ssa Swane un modo efficace per rendere la malattia più accettabile e meno polarizzante è quello di progettare soluzioni insieme sia ai familiari che alle persone con demenza, affinché le esperienze di malattia di entrambi ritornino a essere comprensibili e affrontabili… proprio come qualunque altra malattia degenerativa o invalidante. L’obiettivo è quello di restituire umanità alla demenza, attraverso gli sforzi collettivi di ognuno di noi.

Anche la Dott.ssa Penny Xanthopoulou dell’Università di Exeter (Regno Unito) ha parlato di impatto dello stigma sulle persone diagnosticate. In particolare, la Dott.ssa Xanthopoulou ha sottolineato come una delle reazioni più comuni per contrastare l’etichetta di persona con demenza è quello di minimizzare o normalizzare i sintomi della malattia, rimandando il più possibile una diagnosi ufficiale che rivela l’entità del problema. Inoltre gli studi più recenti dimostrano che le persone con demenza sono generalmente consapevoli che una volta comunicata la diagnosi ai parenti, agli amici, e ai colleghi, la loro ‘immagine non sarà più la stessa e si innalzeranno muri di incomprensione che isolano e rendono difficilissimo chiedere aiuto.

La difficoltà ad accettare e comunicare una diagnosi è anche attribuile al fatto che le persone non vogliono essere trattate in maniera diversa, né vogliono che gli altri cambino le loro aspettative nei loro confronti. Tali fattori fanno sì che molte persone con demenza, con o senza diagnosi, invece di chiedere aiuto per capire come gestire le loro difficoltà, passano la maggior parte del loro tempo a nascondere i propri sintomi, magari rinunciando ad uscire, a vedere i loro amici, o a fare le cose di sempre perché sono diventate difficili o impossibili da fare da soli.

Del resto, come ha osservato anche la Dott.ssa Maaria Atcha dell’Università di Lancaster (Regno Unito) nel suo intervento sullo stigma nelle comunità anglo-sudasiatiche, non è semplice superare da soli la vergogna di una malattia che per molti versi è l’antitesi dei valori occidentali di successo, basati sulle performance cognitive, sull’individualismo, e sull’autosufficienza. Tuttavia, come è stato più volte detto nei numerosi interventi riguardanti questi temi, il passaggio da un atteggiamento di difesa e di vergogna a un atteggiamento più positivo nei confronti della malattia è possibile solo se l’ambiente circostante non solo accoglie ma supera la sua paura e i suoi pregiudizi con azioni concrete atte a ripristinare un equilibrio tra le persone malate, i loro caregiver e il resto della società.

Interventi specifici per chi ha una demenza a esordio precoce

La sessione dedicata alle persone con diagnosi di demenza a esordio precoce è stata altrettanto ricca di spunti e buone idee da implementare nel nostro Paese. Il primo intervento della Dott.ssa olandese Debby Gerritsen, dell’Università di Amsterdam, riguardava un progetto di co-produzione di attività e servizi realizzato insieme a otto gruppi di persone con demenza e i loro familiari. Il progetto consisteva nell’identificare un piano di “empowerment” o crescita personale per vivere una vita soddisfacente e attiva oltre la diagnosi. Le quattro aree principali di azione erano dirette a promuovere attività fisica, relazioni, nuove modalità per sentirsi utili, e in generale un atteggiamento positivo nei confronti della vita nonostante la malattia. La cosa interessante è che per costruire un’atmosfera di massima collaborazione e fiducia tra partecipanti e ricercatori, la Dott.ssa Gerritsen ha deciso di affidare al gruppo di partecipanti il processo decisionale sui metodi di lavoro da utilizzare in modo tale da identificare soluzioni il più possibile vicine ai loro valori e interessi. Durante le quattro settimane di incontri, a ogni partecipante è stato chiesto di raccogliere le proprie impressioni e opinioni in un quaderno di lavoro, nel quale le domande erano finalizzate a identificare cos’era veramente importante per loro, quali aspetti della loro vita li rendevano più felici, quali erano le persone a cui tenevano di più. Il risultato è stato molto positivo non solo perché i partecipanti sono usciti dall’esperienza più resilienti nei confronti della malattia, ma anche perché erano in generale più consapevoli degli aspetti della loro vita che avevano riscoperto come importanti da mantenere, coltivare e proteggere dalle difficoltà quotidiane. Grazie a questo progetto, la Dott.ssa Gerritsen ha anche identificato alcuni aspetti importanti per aiutare le persone con demenza a esordio precoce e i loro familiari ad affrontare meglio la malattia:

  • Ogni informazione riguardante la demenza va spiegata con un linguaggio chiaro ed accessibile che va sperimentato e adattato ai bisogni sia delle persone malate che dei loro familiari.
  • Il ruolo dei caregiver nel promuovere autonomia e sostegno dev’essere chiarito il più possibile. I confini e le responsabilità sono importanti al fine di una collaborazione proficua per entrambe le parti.
  • La mancanza di consapevolezza della malattia o la resistenza alla diagnosi è un ostacolo a qualsiasi attività di supporto ed empowerment.

Un bellissimo progetto dedicato ai baby-boomer con demenza è stato presentato dalla Dott.ssa Romina Oliverio dell’Alzheimer Society di Toronto (Canada). Si tratta di un programma specifico mirato a superare gli ostacoli che impediscono alle persone più giovani di avere un supporto post-diagnosi adeguato ai loro bisogni e valori. Il programma in questione, chiamato Boomers Club, si svolge due volte all’anno per un periodo di 8 settimane con frequenza bisettimanale. Le tematiche degli incontri sono varie e non necessariamente tutte focalizzate sulla malattia.

L’idea infatti è quella di promuovere un atteggiamento positivo e resiliente all’impatto della diagnosi che permetta di sviluppare le risorse personali necessarie a convivere con una diagnosi di demenza.

L’approccio del programma è multi-disciplinare e si avvale di numerosi specialisti che offrono prospettive diverse (in ambito medico e terapeutico, riabilitativo, socio-culturale ecc.) in merito ai sintomi e a loro impatto sulla vita di tutti i giorni. Ai partecipanti vengono offerte attività stimolanti sia dal punto di vista fisico che cognitivo, tra cui momenti di scrittura autobiografica, hobby e passatempo, danza, yoga della risata e musica. Il programma prevede anche il coinvolgimento dei familiari e caregiver per promuovere un clima di reciproco supporto e comprensione. Alle persone senza familiari o caregiver, viene assegnato un volontario dell’Associazione Alzheimer. Una volta terminato il percorso, i partecipanti si ritrovano una volta al mese per trascorrere un po’ di tempo insieme e continuare a condividere il loro cammino di mutuo aiuto.

Un’altra presentazione che ci ha particolarmente colpito e che riteniamo utile specialmente  per le persone con demenza a esordio precoce è stata quella di Ida Lind, della Velux Foundations danese. L’intervento si riferiva a un progetto di un gruppo di supporto dedicato ai figli di età tra i 15  e i 25 anni delle persone con demenza. L’idea del gruppo è nata perché i ricercatori della Velux si sono resi conto che i figli più giovani dei malati hanno bisogni di supporto diversi rispetto ai gruppi tradizionali per i familiari più adulti. Ad esempio, il loro percorso di comprensione e accettazione della malattia dei genitori richiede una particolare attenzione all’impatto emotivo e al fatto che molti di loro non capiscono quello che sta succedendo o si vergognano di avere un genitore con una malattia tanto stigmatizzante. E’ emerso anche che molti di questi ragazzi tendono a isolarsi dai loro amici, soffrono di solitudine e mettono in secondo piano i loro bisogni anche più fondamentali per dare una mano in famiglia. La Dott.ssa Lind ha confessato che non è stato facile trovare un gruppo di adolescenti disposto a partecipare a questo progetto pilota. Tuttavia, una volta superata la diffidenza iniziale, il gruppo si è consolidato creando un’atmosfera accogliente e supportiva che ha facilitato la creazione di giovani ambasciatori per la formazione di nuovi gruppi futuri.

Le testimonianze dei partecipanti con demenza

Come di consueto, sono state tantissime le presentazioni delle persone con demenza nel corso di questa edizione. Le loro testimonianze hanno sempre il potere di restituire senso e speranza a questa malattia. Quello che colpisce di più è che la maggior parte dei relatori con demenza presenti a queste conferenze si è ammalata in età precoce, intorno ai 50 anni. Nonostante le difficoltà causate dai loro deficit e disabilità, ognuno di loro si è fatto coraggio ed è riuscito a trasformare la propria condizione in un’opportunità di cambiamento positivo per sé stesso e per altri che affrontano la stessa malattia.

Durante i loro interventi, Chris Roberts, Agnes Houston, Helen Rochford-Brennan, Peter Mittler e molti altri hanno invitato i partecipanti a costruire le fondamenta di una nuova società globale che si prenda cura delle persone con demenza con più umanità, rispetto e responsabilità. Tutti senza eccezione hanno denunciato la mancanza di un supporto adeguato ai loro bisogni dopo la diagnosi.

In particolare, la neo-eletta Presidente del gruppo di lavoro di Alzheimer Europe, Helen Rochford-Brennan, ha sottolineato che “ogni persona con demenza è molto più di una malattia: è un cittadino a pieno titolo che vuole e deve rimanere attivo nella sua comunità”. Perché ciò avvenga, sono necessari nuovi strumenti di supporto che riconoscano gli ostacoli che impediscono la possibilità di vivere una vita soddisfacente e attiva a tutto tondo. Nel suo intervento finale a chiusura dei lavori, la signora Rochford-Brennan ha anche evidenziato che nell’ambito della comunità globale delle demenze si stanno gradualmente ampliando i  confini, passando da una visione di cura centrata sulla persona a un concetto più etico basato sui diritti umani in tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Nel prossimo articolo parleremo ancora di testimonianze di persone con demenza e di quello che molti di loro stanno facendo per dare vita a quei servizi di supporto che spesso mancano nelle loro comunità. Come si dice in tv, non cambiate canale, il meglio deve ancora arrivare…

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