“Che cavolo è successo al mio cervello?” Appunti sparsi dall’autobiografia di Kate Swaffer

Kate Swaffer
La copertina del libro di Kate Swaffer. Kate ha 57 anni e dal 2008 convive con una diagnosi di demenza frontotemporale con variante semantica.

1° Parte: L’impatto di una diagnosi
di demenza frontotemporale a esordio precoce

Finché c’è vita c’è speranza: questo il filo conduttore del libro di Kate Swaffer, “What the hell happened to my brain? Living beyond dementia” ovvero “Cosa cavolo è successo al mio cervello? Vivere oltre la demenza” pubblicato negli scorsi mesi dalla casa editrice inglese Jessica Kingsley Publishers.

Anche se per ora il libro non è disponibile in italiano (se c’è qualche editore italiano che ci legge… questo è un appello per voi!), ho deciso di dedicare un po’ di spazio alla sua recensione perché si tratta di una testimonianza importante per chiunque stia combattendo con le mille difficoltà quotidiane causate da una demenza.

Chi segue questo blog conosce Kate attraverso i miei resoconti sulle sue attività di attivista a sostegno dei diritti delle persone con demenza. Kate è la presidente di Dementia Alliance International e autrice del blog “Creating life with words: Inspiration, love and truth” Ma il dettaglio più importante riguardo a Kate è che nonostante sia una signora australiana decisamente impegnata su molti fronti, è anche una delle tante persone che hanno ricevuto una diagnosi di demenza frontotemporale a esordio precoce nel bel mezzo del “cammin della sua vita”.

Non aveva ancora 49 anni quando nel 2008 il suo medico specialista le ha annunciato: “Sig.ra Swaffer, lei ha una demenza frontotemporale, probabilmente di tipo semantico. Si prepari a mettere in ordine i suoi affari personali, ad abbandonare lavoro e attività extradomestiche. Ora è venuto il momento di godersi i pochi anni che le rimangono da vivere.”

All’epoca Kate era una manager esperta di vendite nel settore socio-sanitario, studiava all’università per completare un secondo corso di laurea, faceva volontariato per diverse organizzazioni non-profit e, come molte donne della sua età, aveva una casa da accudire, un marito con cui condivideva la vita quotidiana e due figli adolescenti da crescere. Secondo l’opinione del suo medico tutto questo doveva essere abbandonato per “godersi la vita” in attesa di morire.

Nei primi capitoli del suo libro, Kate descrive non solo lo shock che ha provato nel sentirsi comunicare una diagnosi in maniera tanto crudele, ma descrive anche la disperazione dei suoi familiari nel sentirsi dire che dall’oggi al domani la loro Kate era diventata… “una demente”.

Nel ricordare il dolore di quei primi giorni dopo la diagnosi, Kate afferma “La cosa peggiore è stata sentirmi dire da mio figlio: ma mamma, la demenza non è una malattia per vecchi?”

Dopo aver pianto per mesi senza riuscire a trovare una via di uscita, Kate ritrova la speranza e il coraggio di reagire quando incontra lo psicologo e attivista affetto da Alzheimer Richard Taylor, il quale la incoraggia a concentrarsi su tutto ciò che ancora può fare per sé stessa e per gli altri nonostante la malattia.

Ed è così che Kate non solo “riparte” ma trasforma la sua ripartenza in una missione di vita: combattere lo stigma della demenza diventando a sua volta un’attivista e portavoce di migliaia di persone che come lei subiscono le conseguenze del pregiudizio e della discriminazione. Nel suo blog e nei suoi discorsi in pubblico, Kate afferma spesso che è stato proprio l’incontro con il Dott. Taylor a salvarle la vita e a farle ritrovare la forza di lottare e reagire alla disperazione più assoluta.

L’impatto di una demenza a esordio precoce

Uno dei capitoli più interessanti della sua autobiografia riguardano la sua esperienza di malattia con un esordio così precoce. Ammalarsi di demenza a soli 49 anni sembra qualcosa di inconcepibile, non solo per chi si ammala ma anche per tutti noi che siamo abituati ad associare questa malattia alla senilità. Eppure i casi di demenza a esordio precoce sono molto più frequenti di quello che si pensa. C’è anche chi dice siano in aumento.

Ciononostante, i servizi istituzionali e del terzo settore dedicati all’Alzheimer e ad altre demenze – come centri diurni o di sollievo, centri residenziali, attività di stimolazione fisica o cognitiva, ecc. – sono progettati quasi esclusivamente per persone che hanno superato l’età della pensione. Chi ha l’età di Kate o poco più si ritrova tagliato fuori da tutto e da tutti. Questa non è una peculiarità italiana ma è purtroppo una realtà internazionale: l’incomprensione e l’assenza di supporto ogni giorno si trasformano in armi di distruzioni di massa per tante famiglie in tutto il mondo.

Non solo, ma per quanto i sintomi di una demenza possano essere simili ad altre persone malate prescindere dalla loro età, quando la demenza colpisce in età precoce emergono delle ulteriori aggravanti che contribuiscono a destabilizzare le vite dei malati e dei loro familiari.

Nel capitolo del intitolato “Being diagnosed with Younger Onset Dementia” (ndt. essere diagnosticati di una demenza a esordio precoce), Kate elenca  tali aggravanti per come le ha vissute lei finora:

  • Al momento della comunicazione della diagnosi, il sentirsi negare qualsiasi tipo di comprensione, aiuto e speranza ha un impatto devastante per qualsiasi persona con demenza; quando la malattia colpisce chi ha solo 40-50 anni e ha ancora figli da mantenere, salari da portare a casa, mutui da pagare, progetti di vita da portare avanti, la disperazione diventa una vera e propria tragedia.
  • I malati più giovani di solito si ammalano nel bel mezzo della loro vita lavorativa e sono costretti a lasciare il lavoro senza avere la sicurezza di ricevere indennità sufficienti a garantire un sostegno pratico ed economico sufficiente per affrontare le difficoltà causate dalla malattia.
  • Anche i figli delle persone con demenza a esordio precoce sono più giovani e spesso ancora non autonomi. Ciò significa che se – ad esempio – la persona malata è una madre che si occupa prevalentemente dei figli ancora piccoli, con una demenza diventa difficile accudirli e avrà bisogno di una babysitter che aggraverà ulteriormente il già precario budget familiare.
  • Quando la malattia colpisce a 40-50 anni, spesso la persona malata sta ancora affrontando degli impegni economici sostanziosi per mandare avanti la famiglia – ad esempio, mutui o prestiti da pagare, bisogni vari dei figli, costi della scuola, spese mediche, ecc.
  • Secondo l’esperienza di Kate, i malati più giovani tendono a essere più consapevoli dei propri sintomi nelle fasi iniziali della malattia. Questo perché essendo ancora attivi dal punto di vista lavorativo, le loro performance funzionali risultano più deficitarie, soprattutto in ambito nelle competenze lavorative. Per questo motivo, la maggior parte di loro tende a essere diagnosticata prima, quando la malattia è agli esordi. Questo è un aspetto positivo che tuttavia richiede un livello di assistenza post-diagnosi adeguato ai bisogni di una persona che ha ancora un notevole grado di autonomia lavorativa da mantenere il più a lungo possibile.
  • Chi si ammala giovane ha più difficoltà nell’accettare i sintomi di una malattia solitamente attribuita alle persone anziane. Riguardo a questo punto, è importante capire che un conto è essere consapevoli di quello che sta succedendo, un altro è invece accettarne le conseguenze sulla propria pelle. Consapevolezza e accettazione sono due aspetti diversi della malattia da affrontare con molta pazienza e cautela.
  • I pochi servizi disponibili per le persone con Alzheimer e altre demenze sono sistematicamente progettati per persone anziane e non tengono conto dei bisogni di chi è più giovane.
  • Anche il tipo di supporto in casa che ricevono le persone con demenza più giovani è inferiore rispetto ad altri malati perché i loro partner – solitamente altrettanto giovani – devono lavorare a tempo pieno per mandare avanti la famiglia e il budget familiare e non riescono a sopperire ai bisogni di supporto e assistenza dei loro cari con demenza.
  • Spesso le persone con demenza a esordio precoce sono diagnosticate di forme di demenza più rare rispetto all’Alzheimer – es. demenza frontotemporale, demenza corpi di Lewy, ecc. In paesi come l’Italia dove si parla prevalentemente di Alzheimer questo “protagonismo” in termini di informazione e servizi è un enorme problema per tutti coloro che sono affetti da una delle oltre 100 forme di demenza attualmente identificate. I loro bisogni non solo non vengono riconosciuti, ma non viene data loro nemmeno la possibilità di comprendere le peculiarità della forma di demenza di cui sono affetti.
  • I sintomi non vengono visti come singole disabilità ma come un insieme di deficit – e di conseguenza non vengono suggerite strategie specifiche per compensare l’impatto sulla vita quotidiana di tali disabilità (cognitive, sensoriali, fisiche, ecc.). Tali strategie (occupazionali, fisioterapiche, tecnologiche, psicologiche, ecc.) sono fondamentali per assicurare il massimo livello di vita indipendente e qualità della vita.
  • Alla diagnosi di demenza viene solitamente anche associato il divieto di continuare a guidare – divieto che per una persona più giovane significa non solo un enorme impatto sulla sua autonomia personale, ma anche l’impossibilità di continuare a svolgere i propri ruoli in famiglia – ad esempio accompagnare i figli a scuola o in attività extrascolastiche, accompagnare i genitori alle visite mediche, andare al lavoro, recarsi a fare la spesa, ecc.
  • Rispetto ad altre malattie terminali o degenerative, la demenza è discriminata in termini di supporto post-diagnostico perché i malati non ricevono il supporto necessario a reagire ai loro sintomi, né vengono prescritti loro interventi riabilitativi e psicosociali per continuare a vivere una vita il più a lungo autonoma e dignitosa.

La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la settimana prossima…

2 thoughts on ““Che cavolo è successo al mio cervello?” Appunti sparsi dall’autobiografia di Kate Swaffer

  1. Grazie per aver tradotto questa parte del testo di Kate Swaffer. Mi ritrovo e concordo con tutto quello che dice, tranne che con la consapevolezza…. Mio marito ha avuto la diagnosi di demenza fronto.temporale a 50 anni, per cui ci troviamo nelle condizioni di vita e familiari descritte, ma lui non sembra consapevole dei suoi disturbi. Riferisce solo e da tempo di sentirsi “spento”…
    Oltre alla disperazione che sta accompagnando questo primo impatto con la malattia, io come moglie vivo la solitudine istituzionale e la difficoltà di dover “prendere in mano” una situazione che da una parte mi impone di affrontare uno sforzo lavorativo per portare avanti la famiglia mentre dall’altra mi richiederebbe di dedicare a mio marito più tempo e cure…

    1. Grazie per questo commento Eleonora. Ogni persona con demenza fa a sé, e il livello di consapevolezza e accettazione della malattia (o nel tuo caso, la loro assenza) è spesso fonte di enorme frustrazione e sofferenza per tutti. L’esperienza di Kate non è universale, anzi… Quello che però mi preme ribadire è che è proprio la solitudine istituzionale di cui parli a fare più danni, sia per chi è malato che per chi gli/le vive accanto. In circostanze in cui le risorse sono poche e le informazioni per gestire le difficoltà quotidiane sono praticamente inesistenti, il risultato è sempre lo stesso: tanto e tanto dolore. Non ho alcuna pretesa di sapere quanto stai male, ma sappi che ti sono molto vicina e che puoi chiamarci ogni volta che vuoi o che hai bisogno…

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