Del prendersi cura: Mary Radnofsky e il bisogno di sapere la verità (parte seconda)

“Adesso voglio sapere tutta la verità. Specialmente da parte dei medici che mi hanno in cura. Non voglio bugie, non voglio silenzio. Voglio solo la verità.
Nessuno vuole ammalarsi di una malattia degenerativa o è contento di avere una disabilità. Ma se una cosa del genere si annida nel mio corpo e compromette per anni le mie relazioni, il mio carattere, la mia capacità di giudizio, la mia memoria, il mio lavoro, i miei risparmi… in tal caso voglio una spiegazione per il caos che sto vivendo!”
(Mary Radnofsky, 2018)

Ho riflettuto molto dalla pubblicazione della prima parte delle testimonianza di Mary Radnofsky. Mi sono messa nei loro panni e ho cercato di capire cosa farei al posto loro se dovessi affrontare la decisione tra il bisogno di informare cosa sta succedendo e perché (vedi la frase di Mary sopra) e l’istinto di protezione che spinge a nascondere tale verità.

Nel commentare il mio articolo e video di un paio di settimane fa, molti familiari hanno detto di aver provato ad affrontare il discorso con i loro cari con demenza, ma è tutto stato vano – hanno trovato muri invalicabili pieni di rabbia oppure si sono scontrati con i limiti della malattia: le loro parole sono state dimenticate. Altri hanno invece lasciato perdere a priori, sopraffatti dall’idea di affliggere ulteriormente i loro familiari con il rischio di aumentare le incomprensioni e le tensioni domestiche. Un rischio che di solito corrono in totale solitudine, senza per altro avere la cognizione di causa e le competenze che invece avrebbe un medico. Li capisco: costringerli ad affrontare un argomento così delicato – che magari i loro cari con demenza hanno cercato di evitare per mesi o anni di segreta incubazione della malattia – è una responsabilità pesantissima e ad alto potenziale esplosivo.

Però è altrettanto pesante l’onere del tacere. Non solo per i familiari ma anche per tutti gli altri portatori di interesse che vivono a contatto o hanno in cura chi si ammala di questa malattia.

Da un lato vedo dappertutto malati e familiari che continuano a subire le pesanti conseguenze di una vergogna collettiva che non accenna ad attenuarsi, nonostante tutti gli sforzi di alcune comunità di diventare più “amichevoli” (una nota personale a tal proposito: finché le iniziative dementia-friendly saranno portate avanti da tutti meno che dalle persone con demenza sarà per me un segnale tangibile di quanto poco stiamo avanzando sul fronte dello stigma e dell’emarginazione sociale). Dall’altro lato vedo dilagare modus operandi, dentro e fuori i luoghi di cura, che negano diritti fondamentali e compromettono la dignità di chi vive la demenza sulla propria pelle.

Per come la vedo io, il tacere la malattia non solo permette queste ingiustizie quotidiane ma soprattutto autorizza le nostre istituzioni a non fare nulla per cambiare lo status quo. Esempio ne è il nostro piano nazionale demenze che fa fatica ad essere attuato a tre anni dalla sua pubblicazione.

Se per altre malattie degenerative – come ad esempio la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) o la sclerosi multipla, o anche per i tumori – negli ultimi anni le cose sono migliorate in termini di assistenza post-diagnosi e di inclusione sociale è soprattutto perché le persone ammalate hanno cominciato a dare voce ai loro diritti, valori e bisogni. Sono diventate visibili e agenti attivi dei loro destini di fronte alle stesse istituzioni che negavano loro piani di cura e interventi appropriati.

Sarebbe bello che lo stesso succedesse anche nelle demenze.

Il messaggio di Mary: la verità aiuta a tenervi stretta la vostra vita

E’ proprio per questo motivo che Mary insiste sul suo diritto alla verità: se non diamo la possibilità di conoscere la malattia, non diamo nemmeno la possibilità a chi si ammala di farsene una ragione per poi chiedere aiuto e attivare tutti quegli atteggiamenti e comportamenti necessari a mantenere il massimo livello di benessere possibile. Ai fini terapeutici, imparare a prendersi cura di se stessi è la prima regola in qualunque malattia. La demenza non dovrebbe fare eccezione.

A maggior ragione, adesso che le diagnosi sono sempre precoci, cioè vengono effettuate quando la malattia è in fase iniziale (come nel caso di Mary), il bisogno di conoscere la propria diagnosi e quindi di imparare ad affrontarla diventa più che mai pressante e attuale.

Proprio a fronte della resistenza a parlare apertamente di demenza, nel suo messaggio Mary si rivolge soprattutto alle persone che come lei stanno vivendo le conseguenze di questo silenzio:

La demenza non fa più paura di quanto ne faccia già la vita. Tutti noi ci preoccupiamo di cosa succederà in futuro, cosa viene dopo. Nessuno può rispondere a queste domande, possiamo solo fare del nostro meglio per costruire il nostro futuro con ciò che abbiamo oggi.

Siamo resilienti e prendiamo decisioni per noi stessi ma poi ci chiediamo: Come farò ad affrontare tutto questo? La buona notizia è che altre persone ci sono già passate e possono aiutare. Ad esempio, se avete perso la capacità di linguaggio o l’udito possiamo insegnare a voi e al vostro caregiver come utilizzare segnali non-verbali. Esistono anche tecnologie assistive che possono aiutare. Se non riuscite più a leggere potete usare dei programmi che leggono a voce alta per voi. Se non riuscite più a tollerare i rumori potete bloccarli, ci sono tanti strumenti che possono aiutarvi a vivere meglio.

Non vi preoccupate se a volte vi dimenticate nomi o luoghi: potete ancora relazionarvi con gli altri così come siete nel qui e ora…  Dopo essere stati diagnosticati di una demenza potreste avere bisogno di tempo per accettare la vostra diagnosi… per me è stato così. Ma prima accettate questa realtà e prima anche i vostri cari amici la accetteranno. Questa è una cosa importante perché avete ancora una vita da vivere, e siete i soli a poterlo fare.

A proposito di aiuti per convivere meglio con la demenza: come potete vedere in questo video, Mary è accompagnata da un piccolo batuffolo di pelo chiamato Benjy. Si tratta di un cane che è stato addestrato per assisterla quando Mary ha un mini-ictus (tipico della sua demenza rara, ovvero la Leucoencefalopatia sottocorticale). In questi casi Benjy inizia a leccarle la mano per avvertirla di sedersi ed evitare che perdendo i sensi possa cadere e farsi male. Sembra una cosa incredibile, ma Benjy è un vero e proprio salvavita! Ho chiesto a Mary come hanno fatto ad addestrarlo per un qualcosa di così specifico e mi ha risposto che in realtà, quando ha adottato Benjy dal canile, era già capace di identificare quando si sentiva poco bene. Addestrarlo a intercettare i suoi mini-ictus è stato un perfezionamento di qualcosa a lui innato. Davvero incredibile cosa riescono a fare queste splendide creature pelose!

Fonti: