Elena racconta il dolore della perdita

Elena e suo padre

Un pugno allo stomaco. Questa è la sensazione che mi arriva quando leggo la testimonianza di Elena o la ascolto mentre apre il suo cuore nel nostro gruppo di Argonauti (dedicato ai figli con genitori che hanno una demenza frontotemporale). Per quanto mi piacerebbe pensare che anche nei momenti più duri della malattia c’è sempre un appiglio che restituisce senso e umanità, l’esperienza di Elena e di tutte le “Elene” del mondo mi riporta alla realtà di tante persone che convivono con questa malattia stando appese nel vuoto, stravolte da un equilibrio precario che le fa sentire dei figli di un dio minore.

Essendo più o meno coetanee, da quando conosco Elena mi chiedo, come mi sentirei io al suo posto? Come mi comporterei con un padre non più in grado di dimostrare affetto, né per me né per i miei figli, e allo stesso tempo in estremo bisogno di mille cure per non finire su una strada o su un letto di ospedale? Cosa farei se questo stravolgimento di amore, relazioni e impegni quotidiani fosse tutto sulle mie spalle per lunghissimi anni? Come mi sentirei se perfino chi dovrebbe aiutarmi facesse sentire me e mio padre come degli alieni, immeritevoli di servizi, assistenza e comprensione al pari di altre persone che stanno male?

Dico la verità, non ho la più pallida idea di cosa farei al suo posto. Però una cosa la so: proprio perché sono consapevole che vivere in prima persona una demenza può significare questo e molto altro, è per me importante ricordare a me stessa e a chi sta leggendo questo articolo che abbandonare le “Elene del mondo”, o fare finta che la sua esperienza non mi/ci tocchi, è imperdonabile. Dico sul serio.
Domani  potrei benissimo essere io al suo posto. O potreste essere voi.

Non sto sollecitando solo compassione ed empatia nei confronti di chi si trova in circostanze simili, quanto piuttosto una vera e propria rivoluzione culturale: l’impotenza delle cure in ambito demenze non può continuare a occupare tutte le prime pagine dei giornali, tutti i discorsi tra medico e persone che hanno questa malattia, tutte le giustificazioni dei nostri governanti per non investire in servizi e assistenza. Se Elena sta male non è solo perché la malattia è inguaribile, ma è soprattutto perché l’abbiamo resa incurabile.

E giuro che a volte basterebbe così poco…

A presto,

Eloisa

Il dolore della perdita

di Elena

Foglio bianco… sembra difficile iniziare so invece che le parole arriveranno come un fiume in piena..

Perché questa storia, questa situazione che ha invaso la mia vita merita di essere raccontata.

Non è una storia di amore, perché io non sono capace di amare mio babbo… non è una storia di odio perché non sono capace di odiare mio babbo, ma odio la sua malattia ed odio la persona che lui è diventata…

Quando è iniziata la malattia? Non so dirlo, quel giorno che ha iniziato a fermare la gente per strada parlando di sesso mentre portava il nipotino di due anni a fare un giro? O quando dopo essermi separata da mio marito se rientravo tardi dal lavoro costringeva i miei figli a vederlo mangiare senza prepararne per loro… (1 anno e mezzo e 4 anni e mezzo). O forse il giorno che è morta la mamma per un tumore ai polmoni e lui mi ha detto che era solo colpa sua, scaricando su di me la fragilità di un uomo che non si sarebbe più preso cura di nessuno, nemmeno di se stesso. Sono passati 17 anni da quel giorno, ed io non so quando il mio papà è diventato quell’anziano signore che vedo girare in casa sua… è diverso il sorriso, è perso lo sguardo, i riti che lo imprigionano le manie che lo deformano stanno consumando la mia energia. Ho paura, paura che questa malattia duri più della mia capacità di assistere, ho paura che i miei pensieri cattivi rendano cattiva anche me.

Manca la dignità in questa malattia, manca l’umanità, la sua perdita di empatia per il mondo intero, lo rende un fastidioso vecchio estraneo, ma io non posso fare a meno di prendermene cura, non è amore di figlia, è senso del dovere, sono una pessima persona.

L’ho privato della sua indipendenza, l’ho privato della possibilità di scegliere cosa vuol fare della sua vita,
l’ho costretto ad accettare un estraneo in casa che invade i suoi spazi, che cerca di sovvertire i suoi riti, per impedirgli di mettere a rischio la sua salute, sono cattiva…

Lo lavo, anche se lui non vuole, permetto che lui viva questo disagio perché la sua pelle non arrossisca, non si laceri, curo le piaghe che si fa venire per le manie compulsive di cui è schiavo mentre lui piagnucola che devo smetterla, sono cattiva…

Questa non è una storia di amore di una figlia per un padre, ne di un padre per una figlia… la demenza frontotemporale ha sovvertito i nostri ruoli… ci ha spogliato dei nostri affetti.