Il paradosso di Lidia e Fernando: una testimonianza di vita e demenza frontotemporale

Lidia e Ferdinando
Nella foto, Lidia e Ferdinando insieme al loro cane Haruki lo scorso agosto 2017

Ha ragione Lidia, l’autrice di questa testimonianza, quando dice che è paradossale sentirsi accusati di esagerare o di vedere problemi che non esistono quando si convive con qualcuno che ha una demenza frontotemporale. Oltre al danno è la beffa per eccellenza.

La mia impressione è che sono ancora troppo pochi i medici che conoscono questa forma di demenza, e che quindi ne riconoscono le avvisaglie quando un paziente entra nel loro ambulatorio. La tendenza è spesso quella di associare questi sintomi a una malattia mentale o psichiatrica e a minimizzare le esperienze dei pazienti o dei familiari che di solito si accorgono di questi cambiamenti molto prima (spesso si parla di anni) che si arrivi a una diagnosi definitiva.

A questo punto mi chiedo: come si fa coltivare l’accettazione di una malattia nei propri pazienti e familiari quando perfino chi dovrebbe prendersene cura non la conosce a sufficienza? Le conseguenze di questa mancanza di sensibilità le leggete nelle parole di Lidia – parole che per molti versi ricordano la testimonianza di Cristina pubblicata un paio di settimane fa.

Prima o poi dovremo deciderci ad accettare che anche la demenza – in tutte le sue forme e modalità di esordio – è parte della nostra realtà. Nel frattempo, Lidia e Fernando si chiedono perché li stiamo lasciando soli.

Buona lettura,

Eloisa

 

Il paradosso di Lidia e Fernando

Eravamo una bella coppia di cinquantenni senza figli e vivevamo da vent’anni una vita felice.

Nel 2014 Fernando, mio marito, deve andare in Spagna, il paese di sua madre, per sbrigare alcune pratiche burocratiche. Al rientro, qualcosa in lui sembra cambiato. Dice di sentirsi stanco e confuso. Si mostra assente e malinconico. Scopro che, in realtà, non era riuscito a fare nessuna delle pratiche che erano motivo del suo viaggio.

Il primo passo in giù.

In quel periodo io avevo 52 anni e lui 53.

Continuiamo a vivere normalmente, ma lui lavora sempre di meno. Quando torno dal mio ufficio, lo trovo spesso disteso sul divano che guarda la TV. Ha poca energia e mi dedica poca attenzione. Proprio lui, che sorrideva sempre e faceva le scale di corsa per venirmi a cercare!

Quell’estate andiamo al mare con mia nipote (lei studia psicologia) e ci accorgiamo di comportamenti strani. Mio marito non vuole quasi uscire dall’hotel, nemmeno per andare nelle bellissime spiagge, e perde l’orientamento in quel paese che conosce dall’infanzia.

Il secondo passo all’ingiù.

Tornati in città, lui decide di consultare una psichiatra. A quel punto gli viene diagnosticata una depressione ed e’ curato con antidepressivi. Certo, ora sembra più felice, ma è una felicità chimica, gli altri sintomi persistono. Nessuno però se ne accorge tranne me e le mie nipoti, che lo conoscono bene. Nel frattempo, smette quasi del tutto di lavorare.

Ma io lo so che non è depresso.

Cerco di mettermi in contatto con la sua psichiatra, ma lei fa resistenza, per un po’ lascio perdere, ma poi insisto per farmi ricevere ed esplicitare i miei dubbi.

Qui inizia un paradosso: mi viene detto che sono troppo ansiosa, che pretendo troppo da lui e che probabilmente è una crisi di coppia, insomma, sono io che devo farmi curare.

Decidiamo quindi di fare la terapia di coppia con uno psicologo specializzato. Durante le sedute, mio marito non dice quasi una parola, parlo sempre io, lui mi dà ragione. Alla quinta seduta (dovevano essere 10), lo psicologo (onesto!), mi dice che è inutile continuare.

Passa un anno e io sono travolta da mille sentimenti. Predominano l’angoscia e la rabbia. Lui, sempre più assente, non fa quasi nulla. Siamo sull’orlo della separazione.

Torno dalla psichiatra con un elenco scritto di tutti i sintomi che ho notato. Lei mi guarda con sospetto ma, alla fine, mi crede.

Lo manda a fare la risonanza magnetica e subito il radiologo ci chiama per dirci di contattare al più presto un neurologo.

Fernando ed io camminiamo per mano sull’orlo del baratro.

Dopo la risonanza vengono fatti altri esami; la SPECT, nel 2016, conferma la diagnosi. Demenza frontotemporale, variante comportamentale.

Veniamo inseriti in una UVA, unità per l’Alzheimer, perché non esistono centri dedicati a questa malattia. Gli sono prescritti farmaci di tutti i tipi. Queste medicine lo rendono più vivace, ma inutilmente. In seguito diventa nervoso, non riesce a star fermo né a dormire, ha tremori diffusi ed è molto inquieto.

Io sono sfinita, la mancanza di sonno mi distrugge, eppure continuiamo a fare la nostra vita. La mia disperazione si scontra con la sua apparente indifferenza. Eppure ho il sospetto che esista anche in lui la consapevolezza di un cambiamento che non riesce ad afferrare. Il suo dolore mi penetra nel cuore e si fonde con il mio.

Insieme alle mie sorelle, iniziamo le consultazioni con neurologi di altre città. Scopriamo che non c’è niente da fare. Anche la letteratura scientifica più aggiornata, che posso consultare grazie al mio lavoro, conferma che non ci sono al momento terapie efficaci per fermare la degenerazione, ma solo farmaci per controllare i sintomi. Purtroppo, nel nostro caso, gli effetti collaterali dei farmaci superavano gli ipotetici benefici.

Insieme alla neurologa, si decide infine di sospendere la terapia farmacologica, perché ho capito che l’unica cosa da fare è stimolarlo dal punto di vista comportamentale. La mia casa si trasforma in un “centro diurno”. Viene assunto un “guardiano” che gli stia sempre vicino, viene inserita una maestra di piano, uno di chitarra, un insegnante di inglese, un operatore zen-shatzu. Per un po’ funziona, ma pian piano mostra indifferenza anche per queste attività.

Un altro passo in giù.

Ormai passa la maggior parte del tempo sdraiato sul divano a guardare la TV, fumando una sigaretta dopo l’altra, mangia malvolentieri, non beve quasi, non vuole lavarsi. E’ quasi totalmente anaffettivo. Resta solo qualche raro gesto d’affetto, mentre dorme mi cerca la mano e la stringe…

E adesso?

Grazie al Team di Novilunio se pubblicherà la mia storia e a tutti voi se avrete avuto la pazienza di leggerla. Grazie alla mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, grazie a quegli amici che non ci hanno abbandonato, grazie ai miei colleghi per la comprensione continua e soprattutto grazie a Fernando per i bellissimi anni che abbiamo condiviso prima del baratro.

“….vorrei però ricordarti com’eri…..”

Lidia