John Sandblom (DAI) alla Federazione Alzheimer Italia: Abbiamo bisogno di essere inclusi e resi partecipi

Nella foto da sinistra, i novilunici Cristian Leorin e Eloisa Stella insieme a John Sandblog, co-fondatore e tesoriere di Dementia Alliance International

Concludiamo i nostri articoli dedicati al Mese Mondiale dell’Alzheimer e delle altre demenze con una bella notizia che purtroppo è passata relativamente inosservata sui giornali e social media: settimana scorsa la Federazione Italiana Alzheimer ha aperto i lavori del suo convegno annuale con un intervento di John Sandblom, socio fondatore e attuale tesoriere della più importante associazione al mondo di persone con demenza, Dementia Alliance International (DAI).  La cosa per noi italiani straordinaria è che lo stesso John convive con una diagnosi di Alzheimer atipico da oltre 10 anni – all’epoca della diagnosi aveva poco meno di 48 anni.

Durante la sua presentazione, intitolata “Il potere del motto: nulla su di noi senza di noi”, John ha trasmesso un bellissimo messaggio di speranza per un cambiamento possibile: è possibile vivere una vita di senso e qualità anche quando si convive con una diagnosi di demenza a patto che i diritti delle persone con demenza vengano riconosciuti e rispettati.

E’ un peccato che il messaggio di John non sia stato sufficientemente valorizzato settimana scorsa perché secondo me rappresenta uno dei segnali più importanti che le cose stanno cambiando: finalmente anche in Italia qualcuno si sta preoccupando di includere le persone con demenza nelle conversazioni ufficiali che li riguardano. La sua testimonianza fa la differenza perché fino a che a parlare sono gli altri – quelli che non convivono con la malattia – la visione della demenza e dei bisogni delle persone ammalate tendono a essere rappresentati in maniera frammentaria se non addirittura distorta. Come direbbe qualche mio professore di antropologia, gli stereotipi e i falsi miti sono spesso il risultato di un’esclusione sociale sistemica – a partire da chi si tiene stretto il microfono e si rifiuta di cederlo anche a chi ha cognizione di causa.

Per fortuna all’evento milanese c’eravamo anche noi novilunici che ci siamo premurati di chiedere a John gli appunti della sua presentazione per condividerli nel nostro blog. Ecco dunque qualche spunto e appunto dal suo discorso che spero diventi oggetto delle vostre riflessioni.

Della demenza e dei suoi falsi miti

I falsi miti sulle demenza sono talmente insiti nel nostro pensiero comune da essere quasi completamente invisibili perfino a chi lavora in questo ambito. Eppure sono proprio questi falsi miti a trasformare la demenza in un tabù, a produrre fiumi di parole che a volte disinformano e spesso confondono fino ad allontanare le persone con questa malattia e i familiari dal resto della società. Nella sua presentazione John ha elencato un po’ di questi falsi luoghi comuni di cui si sente spesso parlare. Ve li riproponiamo qui di seguito con qualche riflessione scritta di nostro pugno:

  • Una diagnosi di demenza non ha utilità perché tanto non c’è nulla da fare (ovvero, non ci sono cure per guarire)
    Una diagnosi tempestiva è utile per tanti motivi – ad esempio permette di identificare eventuali condizioni o patologie secondarie che provocano sintomi di demenza; permette di comprendere la natura, gli eventuali rischi e i fattori protettivi associati ai deficit emersi; è utile per identificare gli interventi riabilitativi e compensativi più idonei a mantenere una vita attiva e di qualità il più a lungo possibile.
  • La demenza fa parte del processo normale di invecchiamento
    In realtà gli anziani che si ammalano di demenza sono una minoranza anche quando raggiungono un’età avanzata. Il deterioramento cognitivo patologico è l’eccezione non la regola. Non solo, la demenza colpisce anche persone ben al di sotto dei 65 anni – definire la demenza come una malattia “senile” è offensivo e discriminante nei confronti di chi ha una diagnosi di demenza a esordio precoce.
  • Le persone con demenza “tendono a scomparire” e “non sono del tutto presenti”
    Anche se la demenza può compromettere alcune funzioni cognitive, le persone che si ammalano continuano a mantenere un senso di sé anche negli stadi più avanzati della malattia. Il loro modo diverso di esprimere la loro identità non è sinonimo di assenza; né è indicativo di totale inconsapevolezza di chi sono o chi sono state o dell’ambiente e persone che le circondano.
  • Non è possibile comunicare con le persone con demenza
    La comunicazione con le persone con demenza è sempre possibile anche quando il linguaggio verbale non è più efficace. Il linguaggio non-verbale è alla base di tutte le comunicazioni tra esseri umani fin dai nostri primi giorni di vita ed ed è un una modalità di comunicazione fondamentale anche quando le nostre capacità cognitive sono compromesse. Come ha ricordato John, una persona con demenza può dimenticarsi cosa gli hai detto o fatto ma non si dimenticherà di come l’hai fatta sentire.
  • Se una persona non ha problemi di memoria non ha una demenza
    Ci sono molte forme di demenza che non colpiscono la memoria in sé ma compromettono altre funzioni, quali ad esempio la capacità di giudizio, di programmazione, di comunicazione, di controllo delle inibizioni, ecc. John ad esempio ha detto di aver avuto i primi problemi di memoria solo negli ultimi anni nonostante la sua diagnosi di Alzheimer risalga ad almeno 10 anni fa.
  • Le persone con demenza non sentono il dolore
    E’ un pensiero così assurdo e senza alcuna base scientifica che non merita di essere commentato. Temo però che questo falso mito sia la causa di molti abusi nei confronti delle persone con demenza di cui si sente spesso parlare…
  • Se mangi “xxx” o fai “xxx” puoi prevenire o curare una demenza
    Nonostante negli ultimi anni siano stati identificati numerosi fattori di rischio e fattori protettivi del decadimento cognitivo, la demenza rimane ancora una malattia incurabile e dovuta a cause che non sono ancora del tutto chiare alla scienza.
  • Se una persona con demenza è in grado di parlare in pubblico non può essere veramente malata
    Questo è un luogo comune che permette tutta una serie di pratiche di esclusione e discriminazione di cui parlavo sopra. Per fortuna in tutto il mondo ci sono sempre più persone con demenza che parlano a conferenze e convegni importanti (ad esempio, settimana prossima a Berlino ne conosceremo un bel po’ in occasione della conferenza annuale di Alzheimer Europe!). Il fatto che questi supereroi del nostro tempo conservino la capacità di comunicare non significa che non abbiano una demenza ma indica che la loro malattia è in fase iniziale e ha intaccato alcune capacità e non altre. Se ancora non siamo abituati a vedere  italiani con demenza che parlano in pubblico non è perché non esistono persone come John (o Kate, o Wendy, o Ken, o George…), ma è perché lo stigma è così forte che loro stessi si vergognano di uscire allo scoperto. La cosa paradossale è che anche quando qualche capitano coraggioso si fa avanti, tendiamo a ignorarlo come se non avesse nulla di importante da dire.
  • Le persone con demenza non possono vivere una vita di senso
    Vivere una vita di qualità e significato oltre la diagnosi è possibile, ma solo se diamo alle persone con demenza gli strumenti necessari ad affrontare le loro difficoltà quotidiane con dignità e giustizia. Tutte le persone con demenza che parlano apertamente della loro malattia concordano nel dire che vivere una vita di senso oltre la diagnosi significa essenzialmente due cose: 1) mantenere il più a lungo possibile il massimo livello di autonomia e qualità della vita; 2) essere inclusi nella vita di tutti i giorni della propria comunità di appartenenza non come spettatori passivi ma come cittadini a pieno titolo.

A proposito dei “disturbi del comportamento”

Un altro falso mito che alimenta il pregiudizio nei confronti delle persone con demenza è quello secondo cui tutte le persone che si ammalano di questa malattia manifestano “disturbi del comportamento”.

A tal proposito, John ha sottolineato che solo le persone con demenza frontotemporale a variante comportamentale sono soggetti a cambiamenti che riguardano il loro comportamento causati dai danni nelle aree frontali e temporali del loro cervello. Nelle altre forme di demenza, quello che per noi che non abbiamo questa malattia può essere letto come un “disturbo” è spesso un atto di ribellione a circostanze avverse vissute dalla persona malata che non è più in grado di comunicare i suoi bisogni.

“Se vi mettete nei panni di queste persone – ha detto John – come vi comportereste se vi avessero costretto a spostarvi in luoghi dove non volete stare, se foste privati della vostra libertà o se stesse succedendo qualsiasi cosa che vi crea un problema e non foste più in grado di comunicarlo verbalmente?”

Partecipazione e diritti nelle comunità amiche della demenza

John ha dedicato un po’ di tempo al senso e al ruolo delle dementia friendly communities dal punto di vista di Dementia Alliance International. Innanzitutto, ha osservato John, l’obiettivo delle comunità “amiche della demenza” non può essere limitato ad accrescere la consapevolezza della malattia e a promuovere un senso di amicizia nei confronti di chi si ammala. Per DAI l’obiettivo di inclusione di queste comunità deve essere anche tradotto in azioni concrete atte garantire i diritti delle persone con demenza, vale a dire:

  • I diritti umani fondamentali (secondo la Dichiarazione Universale di Diritti Umani)
  • I diritti previsti per le altre persone con disabilità (secondo la Convenzione ONU delle persone con disabilità e altre norme locali previste in questo ambito)
  • Pari accesso alle comunità di appartenenza (incluso l’accesso ai servizi sanitari e ai socio-sanitari locali)
  • Pari opportunità di inclusione (ovvero buone pratiche sociali non discriminanti e non stigmatizzanti)
  • Autonomia e giustizia
  • Ambienti di vita abilitanti (allo stesso modo in cui vengono forniti ausili per la vita indipendente alle altre persone con disabilità).

Questa è la definizione di comunità amica della demenza secondo Dementia Alliance International:

Una comunità amica della demenza è un luogo dove le persone con demenza sono sostenute affinché possano godere di un’elevata qualità di vita che abbia un significato, uno scopo e un valore e dove sono incluse in OGNI CONVERSAZIONE CHE LE RIGUARDA.

Secondo John e DAI, un aspetto cruciale di ogni una comunità amica (e quindi inclusiva) delle persone con demenza  è la creazione fin dalle fasi embrionali di un comitato consultivo locale composto da persone con demenza chiamato sistematicamente in causa per identificare gli obiettivi e le modalità di implementazione delle varie iniziative che dovrebbero garantire l’etichetta di “dementia friendly community”.

John ha inoltre ricordato che finora, l’unica comunità amica dalla demenza riconosciuta a pieno titolo come tale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è la comunità australiana di Kiama. Qui potete trovare qualche informazione in più su di loro.

La battaglia per i diritti delle persone con demenza

Nella terza parte della sua presentazione John ha ripercorso i passaggi che hanno portato l’Organizzazione Mondiale della Sanità a promuovere un approccio basato sui diritti umani a sostegno delle persone con demenza nell’ambito del Piano Globale approvato la scorsa primavera. Già nel 2012 sia l’OMS che la federazione mondiale Alzheimer’s Disease International avevano sottolineato nel loro rapporto congiunto, “Dementia: A Public Health Priority”, che i diritti fondamentali delle persone con demenza sono sistematicamente ignorati o calpestati dalle società di tutto il mondo, sia nei luoghi di cura che a livello di comunità. Nel 2015 l’OECD ha pubblicato il rapporto sulle demenze, “Addressing Dementia: The OECD Response” in cui indicava come la demenza riceva il peggior livello di cure in tutto il mondo sviluppato. Le forme di abuso dei diritti vanno dall’utilizzo di mezzi di contenzione, all’etichettare i comportamenti delle persone malate come “problematici” o dovuti non tanto alla mancanza di un ambiente supportivo e abilitante, quanto alla tendenza delle persone con demenza a essere “ostinate” o “fuori controllo”.

Un enorme passo avanti è stato fatto nel 2015 quando Kate Swaffer, Presidente e co-fondatrice di DAI, ha presentato il punto di vista delle persone con demenza alla prima Conferenza Ministeriale sulle demenze organizzata dall’OMS. Nel suo discorso, Kate chiese a nome degli oltre 47 milioni di persone con demenza che vivono in tutto il mondo percorsi di assistenza pre e post-diagnosi in grado di rispettare i diritti fondamentali di ogni essere umano e i diritti enunciati nella Convenzione ONU per le persone con disabilità. Alla base del suo messaggio c’era una precisa richiesta: la ricerca per una cura deve andare di pari passo con la garanzia di servizi e assistenza per tutte le persone con demenza nel mondo. Rispetto allo straordinario lavoro che DAI che sta portando avanti insieme a Alzheimeir’s Disease International, John ha commentato:

“Molti di noi ricevono pochissimo o nessun sostegno dopo la diagnosi. Senza contare che per alcuni di noi è perfino difficile ottenere una diagnosi. Le cure sanitarie sono un diritto, così come lo è il ricevere un sostegno per le nostre disabilità”.

Grazie alla pressione di DAI, ADI e di altre istituzioni internazionali che hanno adottato l’approccio alla demenza basato sui diritti umani, la scorsa primavera l’OMS ha finalmente pubblicato il Piano d’azione globale sulla risposta della sanità pubblica alla demenza 2017-2025 che invita i singoli stati membri ad elaborare piani strategici nazionali basati sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone e sulla Convenzione ONU per le persone con disabilità. In particolare, ha osservato John, il nuovo Piano OMS include l’implementazione sia a livello globale che dei singoli Stati dei seguenti principi:

  • Diagnosi tempestiva
  • Percorsi assistenziali sociali e servizi che prevedono due tipologie di supporto:
    • Riabilitazione
    • Supporto alla disabilità (es. vita indipendente, inclusione, ecc.)

“Entrambe queste tipologie di supporto” ha osservato John “devono essere mirate a migliorare la resilienza, la speranza, la qualità della vita e la vita indipendente delle persone con demenza e allo stesso tempo fornire strumenti concreti di sostegno alle famiglie, nonché cure palliative quando necessarie”.

John ha infine insistito sulla necessità di cambiare atteggiamento nei confronti della malattia, considerando ogni sintomo come una “dis-abilità”, sia che si tratti di sintomi visibili che invisibili. L’obiettivo di questo cambiamento radicale nell’approccio alle demenze è quello di compensare i limiti del modello medico-clinico, generalmente basato sulla gestione dei sintomi nelle fasi più avanzate, mentre nelle fasi iniziali è povero di risposte concrete.

John ha chiuso il suo discorso incoraggiando tutti ad abbracciare questo nuovo modo di vedere e affrontare la demenza:

“Stiamo cambiando in una maniera diversa da come state cambiando voi, abbiamo disabilità che continuano a evolvere. Prima cominciamo a guardare alla malattia in questi termini – invece di continuare ad alimentare bugie, falsi luoghi comuni, incomprensioni e stigma – meglio è per tutti noi che conviviamo con la demenza. Abbiamo un bisogno disperato che le altre persone ci abilitino e non ci dis-abilitino ancora di più!”