La demenza: incertezze, paure, errori

Il Prof. Marco Trabucchi
Il Prof. Marco Trabucchi, Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e Direttore Editoriale della rivista scientifica “Psicogeriatria” da cui è tratto l’editoriale riportato in questo articolo

Oggi ho il piacere di pubblicare un editoriale scritto dal Prof. Marco Trabucchi che parla di demenza e pregiudizio dal punto di vista di un medico specialista. Marco Trabucchi è Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, Direttore Scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e Professore ordinario Cattedra di Neuropsicofarmacolgia presso l’Università di Roma “Tor Vergata”.

Ho scelto questo articolo per due motivi. Il primo è l’autore, un vero e proprio gigante nell’ambito della psicogeriatria italiana. Insieme al suo formidabile staff di ricercatori e colleghi, e in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e il Ministero della Sanità, all’inizio degli anni 2000 il Prof. Trabucchi è stato promotore del Progetto Cronos che ha dato vita al primo circuito di Unità Valutazione Alzheimer in tutta Italia.

Nel 2011 il suo Gruppo di Ricerca Geriatrica (GrG) di Brescia ha attivato un progetto nazionale con Unicredit per sostenere la nascita e l’implementazione di una rete di caffè Alzheimer in tutta Italia. A questo proposito, colgo l’occasione per ricordare che proprio domani si chiude il bando per la partecipazione al secondo corso di formazione gratuita per lo sviluppo di competenze tecnico-gestionali degli Alzheimer Caffè. Per informazioni, cliccate qui.

Il secondo motivo per cui ritengo questo articolo particolarmente prezioso è il suo tema principale: la relazione tra medico e paziente. In passato in questo blog ho dato voce soprattutto alle persone con demenza che hanno spiegato quanto alcuni atteggiamenti da parte dei loro medici abbiano causato una sofferenza tale da mandarli in pezzi. I nostri medici sono un po’ i nostri angeli custodi, non potersi fidare di loro può togliere non solo senso ma anche speranza. Pur comprendendo le possibili ragioni che possono spingere un medico ad adottare un atteggiamento evitante nei confronti dei suoi pazienti, secondo Trabucchi il rispetto della dignità di una persona che si ammala inizia dalla comunicazione della diagnosi. Informare i propri pazienti significa anche dare loro gli strumenti necessari per affrontare quello che al momento sembra inaffrontabile. 

Buona lettura,

Eloisa


La demenza: incertezze, paure, errori

Editoriale (Psicogeriatria n. 2/2015)

MARCO TRABUCCHI
Presidente Associazione Italiana di Psicogeriatria

Se fossimo chiamati a compiere una lettura dello scenario che accompagna (e caratterizza) oggi il mondo delle demenze ci renderemmo conto che il titolo di questo editoriale non è una dichiarazione di pessimismo, ma il riconoscimento di una situazione oggettiva, punto di partenza -anche se poco piacevole- dal quale iniziare un’analisi che si proponga un miglioramento delle cure possibili. Certo, non siamo così superficiali da pensare che l’impegno anche generoso di una piccola realtà di studiosi e di medici, come quella italiana, possa cambiare il mondo, ma vogliamo dare un’indicazione a coloro che nel nostro paese si impegnano in questo campo, per evitare la diffusione di un certo scoramento, condizione che purtroppo si riflette anche sulla qualità dei servizi prestati.

É facile ipotizzare che ancora per un decennio non si arriverà ad una cura della demenza di Alzheimer; anche se si vedono qua e là segnali di progresso, ritengo non sia opportuno costruire illusioni, seppure in buona fede, come è stato fatto negli anni più recenti.

Dobbiamo indirizzare il lavoro clinico come se non fosse possibile ipotizzare a breve una cura, dedicando il massimo dell’attenzione a quanto possiamo fare oggi, con le conoscenze disponibili, l’esperienza individuale e collettiva degli operatori sanitari, l’impegno delle famiglie e della comunità.

Lungo questa direttiva, di seguito discuto criticamente di alcuni aspetti della condizione degli ammalati che non sono in sintonia con l’impegno di fornire loro il massimo del supporto clinico. Il principale ostacolo, e quello che produce maggiori conseguenze negative, è rappresentato dalla diffusa mancata accettazione della malattia demenza (e demenza di Alzheimer in particolare) da parte della collettività, e quindi dalla diffusione di uno stigma pesante attorno a ciò che riguarda la vita degli ammalati.

Descrivo di seguito due eventi, molto significativi, anche se apparentemente slegati tra di loro, che ben rappresentano la presenza di stigma a diversi livelli. La presa di coscienza della realtà è già un passo importante per iniziare il cambiamento!

Il primo evento riguarda l’informazione recentemente riportata dall’Alzheimer Association secondo la quale in oltre il 50% dei casi il medico americano non comunica la diagnosi di malattia dementigena. Il dato si presta ad una serie di analisi che vanno prese in considerazione se si vuole lavorare per cambiare un così diffuso atteggiamento.

Perché i medici si comportano in questo modo? Le risposte sono numerose, sia quelle apertamente dichiarate, sia quelle implicite e non sempre ammesse.
La prima ragione è la presenza di un forte stigma, diffuso nella collettività quando si parla di malattia mentale. Purtroppo oggi la parola “Alzheimer” assume in molte circostanze il ruolo che aveva fino a 10 anni fa il termine “cancro”; infatti, l’enfasi sulla curabilità e sulla gestione clinica ha cambiato il sentire comune, si potrebbe dire anche al di là della reale, concreta possibilità di gestire la malattia tumorale senza pesanti conseguenze per il paziente. La problematica dello stigma riferito alla demenza è invece ancora aperta; recenti fatti di cronaca hanno ulteriormente pesato sull’immaginario collettivo delle malattie mentali.
Si pensi alla diffusa identificazione malattia mentale-reato conseguente alle polemiche sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari; ma anche la vicenda del suicidio del pilota “depresso” della Germanwings non ha certo favorito una lettura serena da parte dei cittadini di queste problematiche (nel cui ambito, peraltro, non è
sempre facile comprendere le specificità).

Un altro aspetto riguarda la differenza rispetto alla comunicazione della diagnosi di cancro; oggi nel 90% dei casi i medici non hanno difficoltà ad affrontare apertamente una discussione attorno al tumore della mammella, del colon-retto, del polmone e della prostata. La giustificazione principale nel caso della demenza è la mancanza di una cura; infatti non sono state ancora identificate le possibili terapie per evitare la neurodegenerazione o per rallentarne la diffusione, mentre per molti tumori vi sono strategie di trattamento
di una qualche efficacia. Altra ragione addotta è la mancanza di certezza sulla diagnosi e il timore di causare uno stress emotivo troppo forte nell’ammalato e nel famigliare.

Come è possibile rispondere a questo atteggiamento di “fatica” da parte del medico nel comunicare una diagnosi di demenza?

Prima di tutto non banalizzandone il disagio e riconoscendo che in molte situazioni è difficile dare un’informazione senza essere in grado di offrire risposte sufficienti alle domande che questa suscita. Personalmente conosco molti medici seri, preparati, devoti al servizio dei pazienti che vivono una crisi nel momento di comunicare la diagnosi di Alzheimer. É quindi necessario non dare interpretazioni superficiali di questi atteggiamenti né criminalizzare i colleghi che vivono le difficoltà insite nel decidere se, come, quando comunicare una realtà così drammatica.

Si deve peraltro ricordare che, in generale, il medico che non comunica la diagnosi si sente obbligato ad accompagnare il cittadino ammalato e la sua famiglia nel tempo, proprio perché di fatto si è caricato del compito di far svolgere azioni, anche senza una premessa chiara ed una dichiarazione di malattia.

Inoltre si deve ricordare che è molto diverso, dal punto di vista dello stress del paziente, dei famigliari, ma anche del medico, comunicare la diagnosi ad una persona nelle prime fasi di malattia, quando i sintomi e i segni possono avere interpretazioni molto diverse, o in una fase avanzata, quando la famiglia è arrivata da sola a ipotizzare una demenza (seppure senza l’identificazione precisa di una diagnosi).

Però, nonostante queste attenzioni, importanti e doverose, il processo della comunicazione deve sempre avvenire; con le necessarie precauzioni, il medico deve indicare con delicatezza, ma senza mistificazioni, le tappe di un’evoluzione sintomatologica e di malattia. Prima di tutto per un concetto generale: ogni cittadino ha diritto di conoscere i motivi del suo malessere.

Nel 2015 non sono accettabili affermazioni vaghe, generiche su un disagio indotto dall’età, dalla stanchezza, dallo stress…; spesso, inoltre, da parte delle persone conviventi, in assenza di precise informazioni, si tende a dare un’interpretazione soggettiva dei comportamenti, quasi fossero manifestazioni di uno scarso impegno verso la vita.

La comunicazione della diagnosi permette invece un rapporto più sereno verso la famiglia, ed il caregiver primario in particolare; conoscendo l’origine dei comportamenti indotti dalla malattia si adotta un atteggiamento di maggiore tolleranza e comprensione, ad esempio, verso i primi segni di perdita di memoria, ma anche verso i comportamenti provocati dalle alterazioni psicologiche e psichiatriche. Inoltre, frequentemente compaiono cambiamenti di personalità che sono meglio accettati dall’ambiente di vita se ne sono note le cause.

Infine, la comunicazione della diagnosi permette all’ammalato, in collaborazione con la sua famiglia,
di adottare decisioni personali importanti sul piano economico, organizzativo, lavorativo, talvolta anche affettivo (situazioni incerte, che di fronte alla malattia si vogliono chiarire definitivamente).

Una considerazione finale riguarda in generale come esercitare la medicina di fronte a malattie non guaribili; anche se non sono accettabili le scuse di chi dichiara che una corretta comunicazione è resa impossibile dalla limitatezza di tempo e di strutture dei servizi per le demenze (il bravo medico trova infatti sempre gli spazi e i tempi giusti, anche quando costano!), non vi è dubbio che una maggiore elasticità dei ritmi del lavoro clinico favorirebbe la disponibilità verso i bisogni di chi soffre.

La comunicazione della diagnosi è la tappa iniziale di una relazione e di un accompagnamento che possono durare anni e dei quali paziente e famiglia hanno sempre bisogno; solo una terribile angoscia vissuta dal medico rispetto alle conseguenze della malattia e le possibilità di cura, cioè un sentire nel profondo la malattia come inaccettabile, giustificano (almeno spiegano!) l’insensibilità verso i bisogni di informazione dell’ammalato. E se il medico prova questi sentimenti, ancor più grave sarà il sentire dei cittadini, ai quali la malattia sembrerà una tragedia dell’età avanzata, che quindi va allontanata e rifiutata.

Un altro esempio recente che ha fatto ricordare a molti la profondità dello stigma che circonda la malattia di Alzheimer e le altre demenze è stato un fatto di cronaca ampiamente riportato dai più importanti quotidiani americani. Un signore di 78 anni, marito di una coetanea affetta da demenza, è stato arrestato dalla polizia del suo stato perché colpevole di aver avuto un rapporto sessuale appunto con la moglie. Fortunatamente, dopo qualche giorno, un giudice ha assolto la persona arrestata; resta però il fatto in sé: secondo un’opinione diffusa la persona affetta da demenza non può esser oggetto di gesti di tenerezza, perché non potrebbe mai goderne e quindi l’esercizio della sessualità sarebbe di fatto un atto di violenza da parte del partner su persona non consenziente.

Questi comportamenti punitivi si fondano sulla negazione che la vita possa continuare a conservare spazi di significato anche nella malattia; in particolare, si giudica la persona affetta da demenza secondo un apriori ben lontano dall’osservazione attenta del singolo, delle sue peculiarità umane e cliniche e delle sue capacità di relazione ed affettive. Questi comportamenti hanno alla base uno stigma diffuso, ma purtroppo anche un effetto di rinforzo dello stesso, perché è più facile adeguarsi ad atteggiamenti di ignorante banalità, che non porsi l’obiettivo di leggere dentro la realtà della malattia.

Inoltre, questi atteggiamenti hanno un effetto devastante sulle famiglie, vittime di un pregiudizio che le fa ulteriormente soffrire. Peraltro, lo svilire la dignità del paziente e il suo intrinseco valore umano ha ricadute più o meno evidenti e razionali sull’interpretazione da parte della comunità rispetto al valore stesso della vita di queste persone; in tempi di restrizione delle risorse, e quindi della necessità di compiere scelte anche
molto difficili, la riduzione del significato della vita può riflettersi pesantemente sulle decisioni riguardanti l’allocazione delle risorse a favore delle persone più fragili.

Ritornando al titolo di questo editoriale, non si può negare che le demenze oggi si accompagnano a paure, incertezze, errori. In quest’ottica, come meravigliarsi se capitano eventi come quello descritto dal New York Times o se la medicina nel suo complesso ha ancora comportamenti incerti ed ambigui? Si deve ammettere che siamo all’interno di un circolo vizioso difficile da infrangere, perché i numeri crescenti degli ammalati, la relativa mancanza di successi della ricerca terapeutica, la modellistica assistenziale incerta tendono ad aumentare i disagi soggettivi
e oggettivi, e quindi le paure, che a loro volta generano stigma. Quest’ultimo, peraltro, è a sua volta ulteriormente generatore di paure, di allontanamenti, di pregiudizi, che infine peggiorano anche la qualità delle cure.

Come costruire, in questo scenario complessivo, una comunità solidale, in grado di comprendere i significati di studi e ricerche ed allo stesso tempo di affrontare le difficoltà di un numero sempre più grande di malati? Come garantire le cure che permettono di ottenere gli “small gains”, gli atti che portano ad una migliore qualità della vita? Questi interrogativi non sono retorici, ma sottintendono un compito che dobbiamo inventare.

Non siamo profeti, ma il futuro a breve non porterà cambiamenti radicali, almeno per 10 anni, come da molti sostenuto. Dobbiamo quindi costruire le condizioni perché questo periodo di tempo, brevissimo per chi lavora nel campo, lunghissimo per i malati e le famiglie che attendono una risposta alla loro sofferenza, sia accompagnato
da atti di cura efficaci. Questi avranno di per sé un effetto diretto sulla persona ammalata, ma avranno anche la funzione di convincere la comunità che la demenza è una malattia gravissima, che porta alla morte, ma che può essere accompagnata dalla comprensione e da un supporto diffuso per la lunga durata della vita degli ammalati, senza timori, nascondimenti, errori.

Fonte: PSICOGERIATRIA 2015; 2: 5-7

 

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