Ricordarsi della demenza

Mese Alzheimer 2015

Oggi si conclude il mese mondiale dedicato alla sensibilizzazione sulla malattia di Alzheimer. Il titolo di quest’anno, “Ricordati di me” (“Remember me”), è stato promosso dalla federazione Alzheimer’s Disease International per incoraggiare le persone di tutto il mondo a riconoscere la demenza fin dai primi segnali, ma soprattutto per ricordarsi delle persone che ne sono affette, o quelle che sono morte a causa della malattia.

Ricordiamoci ad esempio che ad oggi i malati di demenze a livello globale sono almeno 47 milioni. Dico “almeno” perché credo sia un dato sottostimato. Molte persone infatti non vengono mai diagnosticate per tutta una serie di cause che hanno a che fare con il pregiudizio e la limitata conoscenza della malattia. Moltissime persone non si sottopongono a diagnosi perché la demenza fa paura. Così paura, infatti, da evitarne perfino di parlarne anche quando ha già compromesso la qualità della vita quotidiana.

In un certo senso, è come se affrontare il discorso equivalesse a contagiarsi. A proposito di contagio, invito chi sta leggendo questo articolo a ignorare il bizzarro annuncio pubblicato da alcuni giornali un paio di settimane fa secondo cui l’Alzheimer è contagioso. La notizia è una bufala di una pericolosità assurda. Mi chiedo come si faccia a far circolare certe notizie senza rendersi conto delle conseguenze sulla gente. Dire che l’Alzheimer è contagioso è come dare ai malati degli untori. Vi immaginate il panico? Solo in Italia i malati di demenza sono oltre un milione e duecentomila. Quasi due terzi di questi hanno l’Alzheimer… Chi si avvicina a uno di loro è perduto! Per fortuna le cose non stanno esattamente così. Per approfondimenti sul tema, vi consiglio questo articolo apparso sul Quotidiano Sanità.

Purtroppo a ben oltre un secolo da quando Alois Alzheimer ha “scoperto” e definito l’omonima malattia, non ci sono ancora cure risolutive in grado di guarire una persona che ne è affetta. I farmaci in commercio si limitano ad alleviare alcuni sintomi della malattia. Va anche aggiunto che i farmaci disponibili non sono adatti a tutti e possono causare effetti collaterali anche piuttosto importanti. Per saperne di più al riguardo consiglio un articolo pubblicato dall’Associazione Alzheimer Riese Pio X e uno dal Centro Alzheimer diretto dal Dott. Frisoni.

Data la confusione ancora prevalente tra i termini “Alzheimer” e “demenza”, vorrei approfittarne per ricordare che l’Alzheimer è la causa principale delle demenze (circa 60-80% dei casi) su un totale di oltre un centinaio di cause finora registrate dalla letteratura scientifica. I sintomi più comuni dell’Alzheimer ai primi stadi sono innanzitutto le difficoltà di memoria a breve termine, vale a dire quella capacità che trattiene un certo numero di informazioni per breve tempo e permette ad esempio di tenere a mente un numero di telefono o una lista della spesa. Oltre ai deficit di memoria, l’Alzheimer può anche causare disabilità nell’apprendere concetti e processi nuovi, o può creare difficoltà di orientamento. Altri tipi di demenze, come ad esempio la demenza vascolare, quella frontotemporale, o la demenza da corpi di Lewy, possono provocare sintomi diversi. Alcune forme di demenza sono ereditarie. In altri casi la malattia invece si manifesta senza che ci sia alcuna ereditarietà.

La demenza può colpire a qualsiasi età, ma è più prevalente tra gli anziani (le statistiche internazionali parlano di una prevalenza del 25-30% sopra gli 80 anni di età). Quando la demenza colpisce le persone sotto i 65 anni si parla di “demenza a esordio precoce” o “demenza giovanile”.

E’ importante ricordare che la demenza, per quanto più frequente nella terza età, rimane un’eccezione e non la regola: una minoranza di persone ne è affetta anche in età molto avanzata. Ma soprattutto, la demenza non va confusa con un normale invecchiamento cerebrale. Essere un po’ più smemorati rispetto a quando avevamo 20 anni è una cosa, avere una malattia degenerativa come la demenza è tutta un’altra storia. Nel primo caso il cervello è invecchiato insieme al resto del corpo in un contesto di “normalità” (tenendo presente che comunque siamo tutti diversi… e le nostre capacità cognitive non fanno eccezione). Nel secondo caso si parla di malattia. Per approfondimenti, consultare la nostra sezione “I sintomi…”

Come accennato nel rapporto di Alzheimer’s Disease International dell’anno scorso, intervenendo sui principali fattori di rischio del declino cognitivo (es. disturbi cardiovascolari, diabete, depressione, consumo di tabacco, scarsa attività fisica, ecc.) è possibile ridurre in maniera significativa il rischio di demenza. Va anche detto che molte persone che si sono ammalate conducevano uno stile di vita sano e attivo che nulla faceva presagire un decadimento cognitivo. Dico questo per spiegare che, al di là dei fattori di rischio e di quelli protettivi che comunque incidono significativamente sull’esordio della malattia, la malattia colpisce chiunque, a prescindere dallo stile di vita, dal ceto sociale o dal grado di istruzione – vedi ad esempio i casi eclatanti di Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Iris Murdoch, ecc.

C’è un detto che gira tra gli attivisti con demenza che spiega di cosa sto parlando: “Quando vedi una persona con demenza hai visto una persona con demenza”. Vale a dire, ogni persona con demenza risponde alle conseguenze dei deficit cognitivi causati dalla malattia in maniera diversa. Conoscere una persona con demenza non significa conoscere la malattia. Ogni persona malata è un caso a sé. Questa diversità dipende da una serie di fattori, a partire dalla nostra riserva cognitiva e quanto questa riesca a compensare anche disabilità gravi. In generale, le nostre capacità di percezione, pianificazione, orientamento, memoria, linguaggio, ecc. variano molto da persona a persona. Se provo anche solo a confrontarmi con la capacità mnemonica di mio marito mi deprimo da sola: lui è un’enciclopedia che cammina, io faccio fatica anche a ricordarmi il giorno del mio compleanno!

La gestione dei sintomi (o difficoltà quotidiane) dovute alla malattia dipende anche dal suo livello di accettazione da parte sia della persona malata che di chi le sta intorno. Molti degli attivisti con demenza con cui sono in contatto all’estero hanno accettato, seppur con enorme fatica, la loro condizione e sono ripartiti dopo la diagnosi cercando di trovare tutte le strategie possibili per vivere una vita normale nonostante la malattia. Con questo non voglio dire che per loro la demenza non è un problema – anzi, se provate a leggere i loro blog in cui descrivono le enormi difficoltà quotidiane per svolgere anche la più semplice attività come il farsi la doccia, cucinare o fare una passeggiata, vi rendete conto che la vita che vivono è molto complessa e stressante – oltre che devastante dal punto di vista emotivo. Ciononostante non si arrendono e provano a dare il meglio di sé per non arrendersi passivamente al baratro della degenerazione neurologica. Molti di loro con questo sistema riescono a rallentare il decorso della malattia, vedi ad esempio il caso di Cristine Bryden, di Kate Swaffer, o di Helga Rohra. Anche se, come qualcuno mi ha fatto notare recentemente, gli esempi di questi attivisti rappresentano più l’eccezione che la regola, sta di fatto che anche loro rappresentano la casistica della demenza. E questo per me è un dato di fatto importante.

Esattamente com’è importante anche ricordare che anche se purtroppo non esiste ancora una cura, negli ultimi anni la ricerca scientifica ha dimostrato quanto siano importanti interventi non-farmacologici per gestire e rallentare la malattia.

Come abbiamo visto anche dalle presentazioni di molti ricercatori alla recente conferenza di Alzheimer Europe, sono sempre più frequenti gli studi, ma anche i centri riabilitativi in tutto il mondo, che promuovono interventi multidisciplinari basati sull’attività fisica, la stimolazione cognitiva, le attività sociali e ricreative e una dieta sana e bilanciata. Questo tipo di interventi spesso promuovono anche strategie compensative per i deficit causati dalla demenza affinché la persona possa continuare a vivere una vita attiva e di significato, a livello fisico, mentale e relazionale.

Come dice la stessa, la famosa attivista con demenza Christine Bryden, “C’è ancora molta vita da vivere la diagnosi”.

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