Demenza e vita indipendente: Dementia Alliance International fa appello alle Nazioni Unite

Convenzione ONU-CRPD
Il 19 aprile scorso, il Prof. Peter Mittler, membro di Dementia Alliance International e consigliere-attivista per i diritti umani, ha presentato alla Commissione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) un documento di sintesi che invita la Commissione a riconoscere alle persone con demenza il diritto al sostegno della vita indipendente all’interno delle loro comunità, secondo i principi dell’Art. 19 della Convenzione dei diritti ONU in materia di disabilità.

Qualora la richiesta fosse accolta e implementata, si tratterebbe di una svolta storica non solo per gli oltre 47 milioni di persone al mondo che attualmente convivono con una demenza, ma anche per le generazioni future che avranno accesso a servizi più consoni ai loro bisogni post-diagnosi.

Dementia Alliance International (DAI) è la più grande organizzazione al mondo di persone con demenza, con oltre 1.500 membri in ogni continente.  DAI lavora fianco a fianco con la federazione mondiale Alzheimer’s Disease International (ADI) affinché i principi della Convenzione ONU-CRPD siano riconosciuti e salvaguardati anche per le persone con demenza, sia in ambito medico che socio-assistenziale a livello internazionale, nazionale e locale.

Di seguito, riportiamo le raccomandazioni DAI alle Nazioni Unite a cui seguono una serie di considerazioni contenute nel documento presentato dal Prof. Mittler per contestualizzare motivazioni e contesto.

Le raccomandazioni di Dementia Alliance International
Dementia Alliance International chiede alla Commissione ONU per le disabilità di adottare misure volte a promuovere i diritti delle persone con demenza tra gli Stati membri e tutti gli organi delle Nazioni Unite, affinché tali diritti siano salvaguardati e diventino parte delle azioni di controllo e implementazione.

L’articolo 19 della Convenzione ONU: Aspetti generali dal punto di vista delle persone con demenza

  1. Come altre malattie (ad es. epilessia, Parkinson, malattia del motoneurone, ecc.) la demenza richiede una maggiore attenzione nella valutazione dell’impatto del deterioramento che ne consegue. Nonostante la demenza sia una malattia degenerativa, l’evoluzione del deterioramento nel corso degli anni è molto variabile e i livelli di funzionamento tendono a mutare di giorno in giorno e non possono essere identificati accuratamente da valutazioni periodiche che influenzano le decisioni sulla capacità legale della persona. Spesso si evidenzia una discrepanza tra i risultati dei test clinici e le effettive capacità quotidiane.
  2. Alcuni esperti hanno ribadito che il concetto di “vita indipendente” non significa “vivere da soli”. Come altri documenti in materia di diritti l’articolo 19 della Convenzione ONU-CRPD si concentra sulla persona [con disabilità] senza porre sufficiente attenzione ai diritti di coloro che le vivono accanto e condividono con loro la vita quotidiana – vedi ad esempio i partner che perdono il loro ruolo coniugale per essere investiti automaticamente del ruolo di caregiver nel momento si comunica la diagnosi. Il personale addetto alla pianificazione e all’erogazione dei servizi di assistenza e supporto dovrebbero tenere in considerazione sono solo le dinamiche di coppia ma anche i bisogni di entrambi.
  3. Le prime versioni del modello sociale della disabilità concepiscono l’ambiente in termini di ostacoli da superare (es. “i genitori sono i nostri nemici”) invece che opportunità da sfruttare in termini di supporto alla vita indipendente e attiva all’interno della propria comunità.

La posta in gioco

In molti paesi, riconoscere alle persone con demenza gli stessi diritti umani che godono le persone con disabilità è inusuale, se non per molti versi discutibile. Eppure l’articolo 1 della Convenzione ONU-CRPD sui diritti delle persone con disabilità sembrerebbe abbastanza chiara al riguardo:

“Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri.” (Convenzione ONU-CRPD)

L’intervento dello scorso anno della Presidente DAI, Kate Swaffer, alla Prima Conferenza Mondiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla demenza era mirato a mettere in luce questa contraddizione: pur riconoscendo alle persone con demenza che la loro malattia è causa di disabilità acquisite che impediscono loro di essere cittadini a pieno titolo, finora la Convenzione non è mai stata apertamente applicata per proteggere i loro diritti umani. Come mai?

Purtroppo le conseguenze di questa ambiguità sono pesanti e complesse – a partire dal fatto che in questo modo la demenza continua ad essere esclusivamente responsabilità dei ministeri della salute, invece di essere condivisa tra vari organi governativi locali, nazionali e internazionali, a partire dai ministeri che si occupano di politiche sociali, abitative, trasporti, famiglia, ecc.

Mi spiego meglio, se la demenza fosse riconosciuta come una disabilità acquisita a tutti gli effetti, le persone con demenza avrebbero diritto a quanto indicato nell’Art. 19 della Convenzione ONU in merito alla vita indipendente e all’inclusione nella loro comunità:

Gli Stati Parti di questa Convenzione riconoscono l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e prendono misure efficaci e appropriate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e della piena inclusione e partecipazione all’interno della comunità, anche assicurando che:

(a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa;

(b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione;

(c) i servizi e le strutture comunitarie destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni. (Convenzione ONU-CRPD)

Gli ostacoli all’inclusione sociale

Nel documento presentato dal Prof. Mittler all’ONU si legge: “Le persone con demenza hanno vissuto una vita indipendente e sono state cittadini attivi nella loro comunità per tutta la loro vita. Tuttavia, quando ricevono la diagnosi, incontrano numerosi ostacoli profondamente radicati nelle società in cui vivono che impediscono la loro inclusione sociale.”

Ad esempio:

  1. Diagnosi ed esclusione

L’esclusione dalla vita sociale spesso inizia con la comunicazione della diagnosi di demenza. Molte testimonianze delle persone con demenza descrivono come il personale medico spesso manchi di sensibilità e umanità nell’informarli della loro malattia. Richard Taylor e Kate Swaffer hanno scritto molto al riguardo, indicando come questo atteggiamento sia profondamente doloroso e umiliante, se non addirittura fuorviante. A tal proposito la stessa Kate ha coniato con il termine “Disimpegno obbligato” per indicare come al momento della comunicazione della diagnosi il medico di turno spesso si limiti a consigliare alla persona con demenza di abbandonare lavoro e impegni e godersi il tempo che rimane di vivere come meglio può. Il giorno della diagnosi, al marito di Kate è stato anche detto di prepararsi ad abbandonare lui stesso il lavoro perché da lì a breve avrebbe dovuto occuparsi della moglie a tempo pieno.

Le capacità di intendere e di volere e di guidare vengono immediatamente messe in discussione con una diagnosi di demenza, invece di essere valutate in maniera indipendente e rigorosa, verificando le effettive capacità residue. Un tale approccio alla diagnosi può essere particolarmente problematico per le persone con demenza ad esordio precoce (che cioè colpisce sotto i 65 anni) che stanno ancora lavorando, mantenendo figli, pagando il mutuo di casa, ecc.

  1. Isolamento sociale

Molte persone con demenza sono sole e isolate dagli amici. Una volta ricevuta la diagnosi, le visite dei loro amici e parenti si fanno sempre più rare e i vicini di casa cambiano marciapiede pur di evitarli. La paura di non sapere cosa dire a chi ha una demenza conclamata fa questo e altro. L’isolamento viene aggravato anche dalla stessa paura della persona di uscire di casa e di sentirsi umiliata perché consapevole di non riuscire più a funzionare nel mondo come faceva prima di ammalarsi. Con una diagnosi di demenza, identità e autostima vengono inevitabilmente compromesse e tendono a deteriorarsi ancora di più quando non si riesce più a prendersi cura dei propri impegni e responsabilità, o quando ci si sente sostituiti nei propri ruoli dai caregiver o dai propri partner, a volte anche su suggerimento di professionisti del settore.

  1. Pregiudizio e stigma

La demenza è un taboo tanto quanto lo era il cancro qualche anno fa, quando veniva chiamato in maniera anonima il “brutto male”. La causa di questo pregiudizio è la stessa: le persone temono la malattia più di ogni altra cosa ed esitano a chiedere aiuto anche quando sono preoccupate per la loro stessa memoria o perché si accorgono di avere dei problemi cognitivi. Lo stigma associato alla demenza è alimentato non solo dai media ma anche dagli stessi politici e dagli addetti ai lavori che operano in questo settore che continuano a definire la malattia con termini apocalittici come “bomba a ologeria” o “tsunami”, auspicando un mondo senza demenza nell’arco di una generazione.

Le conseguenze di questo linguaggio e del pregiudizio che ne consegue sono ben descritte nell’ultimo rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) che indica la demenza come la malattia che riceve il peggior livello di cura nel mondo sviluppato. Allo stesso tempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che la disabilità causata da una demenza è maggiore rispetto a quasi tutte le altre malattie, ad eccezione della lesione del midollo spinale o al cancro in fase terminale.

  1. Istituzionalizzazione prematura

La maggior parte delle persone con demenza che vivono nei paesi a reddito elevato vivono con il proprio partner e caregiver, a fronte di un supporto esterno che può variare da visite domiciliari quotidiane a nessuna visita da parte dei servizi socio-assistenziali locali, a prescindere che siano pagati dalla famiglia o da fondi pubblici. Il 30 percento delle persone con demenza vive da solo e ha ancora meno accesso al supporto esterno a causa del loro status di single o dell’impossibilità di chiedere l’assistenza di un caregiver. In diversi paesi a reddito medio o basso l’unica risorsa per loro è l’istituzionalizzazione.

Una persona con demenza ricoverata in ospedale per ragioni non direttamente imputabili al decadimento cognitivo tende a rimanere in ospedale più a lungo rispetto a una persona che non ha una demenza. Questo è dovuto sia al fatto che statisticamente questo tipo di pazienti riceve cure qualitativamente inferiori e sia al fatto che i loro partner non sono in grado di prendersi cura di loro a casa. Un maggior investimento nei servizi domiciliari potrebbe ridurre significativamente sia l’istituzionalizzazione temporanea che a lungo termine.

Una volta istituzionalizzati, l’isolamento dalla propria comunità è aggravato dal fatto che familiari ed amici smettono di andare a trovare la persona ricoverata, soprattutto se questa non è in grado di riconoscerli o manifesta disagio in loro presenza.

  1. Demenza e vita di coppia

Molti professionisti e politici tendono a generalizzare sulla figura dei caregiver come se fossero un gruppo omogeneo, nonostante le loro testimonianze raccontino spesso quanto le loro esperienze e atteggiamenti nei confronti della malattia siano molto diversi. Poiché i partner svolgono un ruolo fondamentale nel permettere che le persone con demenza continuino a vivere a casa e a frequentare le proprie comunità, anche loro hanno il diritto a un supporto che li aiuti a svolgere il loro ruolo.

Il 25 percento delle persone con demenza e il 50 percento dei partner che li assistono sono clinicamente depressi. Nella sua autobiografia, Richard Taylor racconta di aver pianto per settimane dopo aver ricevuto la sua diagnosi. La sua esperienza dimostra quanto possa essere importante ricevere un supporto psicologico alla persona malata e ai loro partner.

  1. I percorsi riabilitativi

C’è un enorme divario tra il tipo di supporto offerto alle persone con demenza e la qualità e varietà di servizi riabilitativi offerti a persone colpite ad esempio da un trauma cranico o un ictus. Nell’ambito della demenza il modello di riferimento prevalente è medico, mentre in realtà il bisogno di supporto post-diagnosi dovrebbe riflettere un modello più olistico come quello suggerito dall’art. 26 della Convenzione ONU-CRPD:

Gli Stati Parti prenderanno misure efficaci e appropriate, tra cui il sostegno tra pari, per permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la massima autonomia, la piena abilità fisica, mentale, sociale e professionale, e di giungere alla piena inclusione e partecipazione in tutti gli ambiti della vita.

A questo scopo, gli Stati Parti organizzeranno, rafforzeranno e estenderanno servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali […](Convenzione ONU-CRPD)

Il supporto post-diagnosi dovrebbe cioè essere ispirato a un programma di interventi di carattere riabilitativo che inizia dal momento della diagnosi ed è coordinato da una persona (es. un case manager) incaricata di orientare la persona e la sua famiglia ai diversi servizi di supporto e assistenza presenti nella loro comunità. L’orientamento e il supporto dovrebbe essere gestito in base ai loro risorse, priorità e bisogni specifici. In diversi paesi sono già stati attivati modelli di intervento riabilitativo multidisciplinare. Scozia e Australia sono particolarmente avanzate in questo frangente.

Secondo Dementia Alliance International, un percorso riabilitativo efficace dovrebbe includere l’intervento di una vasta varietà di specialisti:

  • Terapisti occupazionali per discutere eventuali adattamenti dell’abitazione e degli strumenti tecnologici quotidianim, quali televisione, computer, telefonino, ecc.
  • Fisioterapisti per mantenere mobilità e forza.
  • Logoterapisti per stimolare linguaggio e comunicazione.
  • Psicologi e neuropsicologi per consigliare eventuali adattamenti allo scopo di migliorare o mantenere le funzioni cognitive, l’autonomia e una buona qualità di vita.
  • Assistenti sociali per aiutare la famiglia ad accedere ai servizi e alle risorse offerti dalla propria comunità di residenza.

N.B. Il testo integrale e in lingua originale del documento presentato dal Prof. Mittler è disponibile a questo link: http://www.dementiaallianceinternational.org/human-rights-dementia/

Fonti:

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