Demenza Frontotemporale: Il parere dello psicologo

donna mezza età demenza precoce

Oggi pubblichiamo un’intervista che abbiamo fatto al Dott. Luca Flesia, psicologo e psicoterapeuta, sulla sua esperienza con le persone affette da demenza frontotemporale (DFT).

Oltre a “rispolverare” un po’ di argomenti che abbiamo già affrontato in questo blog in materia di DFT, abbiamo chiesto al Dott. Flesia qualche approfondimento su alcune tematiche particolarmente difficili che riguardano questa malattia, sia dal punto di vista delle persone malate che dei loro familiari.

Rispetto alla malattia di Alzheimer, la demenza frontotemporale è molto meno nota e spesso è confusa con lo stesso Alzheimer o con altre patologie come la depressione. Ciò significa che spesso l’escursus per arrivare a una diagnosi definitiva è spesso particolarmente lungo e doloroso.

Un primo passo verso una convivenza con le conseguenze della DFT è l’informazione. A questo proposito, vi invito a dare un’occhiata ai link a fondo articolo che suggerisce lo stesso Dott. Flesia. Uno di questi include un opuscolo prodotto dall’Associazione Italiana Malattia Frontotemporale. Questo è il link per scaricare l’opuscolo.


DEMENZA FRONTOTEMPORALE: IL PARERE DELLO PSICOLOGO

Quali sono le cause della demenza frontotemporale?

La demenza frontotemporale (DFT) è causata da un processo patologico che genera danni progressivi e un restringimento (atrofia) di due aree del cervello, che prendono il nome di lobi frontali (in prossimità della fronte) elobi temporali (sopra le orecchie).

L’espressione “demenza fronto-temporale” (o degenerazione fronto-temporale) è un termine generico per un gruppo simile ma eterogeneo di manifestazioni sintomatologiche; i sintomi e i segni variano a seconda delle parti del cervello specificamente colpite.

Tutti i processi patologici individuati alla base della demenza fronto-temporale sono legati ad un accumulo anormale di alcune proteine nel cervello. Gli agglomerati di queste proteine si ammassano nelle zone cerebrali interessate e diventano tossici per le cellule cerebrali, uccidendole e facendo sì che le aree colpite si restringano nel tempo.Non è ancora del tutto chiaro come si formino queste proteine anormali, perché avvenga questo accumulo e come esso conduca alla perdita delle cellule cerebrali.

 Ci possono essere correlazioni con eventi traumatici o altre cause (es. genetiche)?

Le ricerche epidemiologiche evidenziano che la demenza frontotemporale presenta dei chiari tratti di familiarità: circa il 40% dei pazienti (i dati oscillano tra il 30 e il 50%) conta tra i propri familiari (genitori, fratelli o sorelle) almeno un altro congiunto con i medesimi sintomi. Questi dati hanno sollecitato la ricerca in ambito genetico; attualmente sono stati individuati alcuni geni che, con le loro mutazioni, rendono conto di circa il 25% del numero complessivo di pazienti con una malattia frontotemporale a carattere familiare (quindi il 10% delle persone affette da demenza fronto-temporale).

Va precisato che, come noto dalle ormai numerose ricerche nel campo dell’epigenetica, la presenza di una predisposizione genetica per la DFT non implica automaticamente l’esordio della stessa. Fattori ambientali protettivi o di rischio esterni, infatti, entrano in gioco nel mantenere silente o attivare un determinato gene, tuttavia al momento non sono noti specifici fattori protettivi o di rischio. E’ comunque possibile dire che coltivare uno stile di vita sano, una alimentazione calibrata, riducendo lo stress psico-fisico, mantenendo una vita affettiva e relazionale il più possibile viva ed appagante, fedele alle proprie passioni e propensioni, sembrano essere tutti fattori protettivi per una buona salute psico-fisica.

Quali i sintomi più frequenti riscontrati?

Segni e sintomi della malattia dipendono dalla precisa area cerebrale danneggiata. Il termine “demenza fronto-temporale”, infatti, è un termine cosiddetto “ombrello”, che racchiude sotto di sé una variegata serie di manifestazioni.

In generale, il segno distintivo della DFT è un graduale e progressivo declino nel comportamento (apatia, irritabilità, comportamenti ossessivi, tendenza a mangiare in eccesso, ecc.), con alterazioni della personalità e dell’emotività (depressione, euforia, ecc.), reazioni inappropriate in situazioni sociali (impulsività, disinibizione, …), e/o nel linguaggio, con alterazioni della comprensione o della produzione verbale. L’esordio è spesso precoce, più frequentemente tra i 50 e i 60 anni e viene definito insidioso, ovvero i primi sintomi possono essere poco significativi.Questo tipo di demenza può anche compromettere funzioni del pensiero complesso come la pianificazione, l’organizzazione o il ragionamento. Talvolta le persone colpite da DFT possono anche sviluppare problemi motori simili a quelli che emergono nelle persone che soffrono di malattia di Parkinson. Molte persone con questa malattia mancano totalmente di consapevolezza sin dall’esordio della malattia, quindi non riconoscono i cambiamenti che stanno loro avvenendo né l’inappropriatezza dei loro comportamenti.

A seconda della manifestazione clinica sono stati identificati diversi sottotipi di demenza fronto-temporale. Le tre principali varianti sono:

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Come si differenzia dalla malattia di Alzheimer?

La distinzione diagnostica tra DFT e malattia di Alzheimer è tutt’altro che automatica e rappresenta una difficoltà abbastanza storica. L’accuratezza della diagnosi è un ambito su cui la ricerca sta investendo numerose energie. Le difficoltà nel differenziare le due malattie dipendono principalmente dalle seguenti ragioni: 1. le manifestazioni iniziali delle due malattie possono essere molto simili tra loro; 2. la diagnosi certa di demenza fonto-temporale (così come di Alzheimer) può essere effettuata solo post-mortem, tramite esame istologico delle cellule cerebrali; 3. talvolta in una stessa persona possono coesistere entrambi i quadri patologici.

Attualmente le tecniche di visualizzazione cerebrale (TAC, risonanza magnetica funzionale, PET, SPECT) sono lo strumento più utile per differenziare le due patologie.

Dal punto di vista dei sintomi, la DFT è una malattia che colpisce principalmente, anche nelle fasi iniziali, il comportamento e il linguaggio: la persona può iniziare ad avere comportamenti inappropriati, impulsivi, eccessivi, spesso in assenza di consapevolezza; generalmente la memoria non risulta compromessa e può essere conservata anche a lungo dopo l’insorgenza della malattia.

La malattia di Alzheimer, invece, è caratterizzata sin dall’esordio dalla perdita di memoria. Nel caso della DFT, anche nei casi in cui la persona manifesti delle difficoltà nel “trovare la parola giusta” o abbia difficoltà di riconoscimento di visi e oggetti, più spesso la difficoltà non è tanto nel ricordare o riconoscere le persone, ma piuttosto nel reperire il nome corretto per oggetti o persone, ovvero legato ad un disturbo del linguaggio. Un’approfondita valutazione neuropsicologica e l’utilizzo di specifiche modalità comunicative può essere utile nel discriminare l’origine (mnesica o linguistica) alla base della difficoltà.

La DFT, infine, ha spesso un esordio più precoce dell’Alzheimer: circa il 60% dei casi si verifica in persone di 45-64 anni. Man mano che l’età di insorgenza avanza, è meno probabile che si tratti di demenza fronto-temporale.

Perché spesso viene confusa con una depressione?

La DFT, nelle fasi iniziali, viene spesso confusa con una depressione perché l’esordio è insidioso (inizialmente i segni e i sintomi sono lievi e poco significativi) e alcuni dei frequenti segni iniziali possono venire attribuiti a stress o depressione. Tra i primi sintomi ad apparire nella demenza fronto-temporale si possono riscontrare infatti apatia, perdita di motivazione, disinteresse nei confronti delle attività familiari, amicali e sociali. Inoltre le difficoltà di linguaggio e la titubanza espressiva portano a comunicare meno.

L’età precoce di insorgenza (la malattia può presentarsi frequentemente in una fascia d’età compresa tra i 50 e i 60 anni) è un’altra ragione per cui può risultare più intuitivo attribuire la sintomatologia a problematiche di tipo psichiatrico più che di tipo neurodegenerativo.

Quali sono gli esami medici necessari per ottenere una diagnosi?

Confermare una diagnosi di DFT, soprattutto nelle fasi iniziali, può essere difficile. Questo perché molti dei sintomi si sovrappongono a quelli di altre sindromi cliniche.

Una diagnosi definitiva può essere confermata solo attraverso un’autopsia cerebrale dopo la morte della persona. Per ottenere una diagnosi di probabile demenza frontotemporale è necessaria una serie di esami medici, che consistono in:

  • Raccolta e valutazione clinica dei sintomi della persona – per esempio cambiamenti comportamentali o problemi di linguaggio – spesso con l’aiuto di un familiare o di amici;
  • Compilare l’anamnesi personale e familiare e considerare tutti i farmaci che la persona sta assumendo;
  • Effettuare una visita medica completa e effettuare gli esami del sangue per escludere altre possibili cause dei sintomi (es. carenza di vitamina B12, problematiche epatiche o renali);
  • Sottoporsi ad una valutazione completa delle funzioni cognitive (esame neuropsicologico), che valuti comportamento, linguaggio, memoria ed altre funzioni cognitive;
  • Effettuare esami di visualizzazione cerebrale (es. risonanza magnetica funzionale, PET, SPECT) che possono evidenziare la perdita di cellule cerebrali nelle regioni frontali e temporali o di altre anormalità visibili (es. tumori, problematiche vascolari, ecc.) che possono causare segni e sintomi.

Spesso la mancanza di consapevolezza di malattia da parte del paziente induce quest’ultimo a rifiutare le visite mediche e quindi a ritardare la visita dal medico o dal neurologo. Se il familiare si fa persuadere dal malato a lasciarlo andare da solo dal medico, molto probabilmente il resoconto indurrà ad una valutazione incompleta; la valutazione clinica dei sintomi dipende in questi casi primariamente dal racconto realistico proveniente dal partner o da altre persone vicine.

Alcune di queste valutazioni possono essere effettuate dal medico di medicina generale, altre richiedono una visita specialistica, generalmente neurologica, geriatrica, psichiatrica o neuropsicologica.

Se nella storia familiare ricorre un altro caso di demenza fronto-temporale (familiarità), si potrebbe voler ricorrere ad un test genetico, per verificare se si è portatori di uno dei geni alterati che causano questa malattia. Prima di sottoporsi a un test di questo tipo, è molto importante esplorare e discutere rischi, benefici e limiti di una consulenza di questo tipo assieme ad uno specialista.

Quali sono gli aspetti più difficili della malattia dal punto di vista della persona malata?

Nei casi in cui la consapevolezza è almeno parzialmente conservata, il momento della ricezione della diagnosi e l’elaborazione di questa comunicazione costituisce un processo difficile e doloroso. Può essere utile in questa fase un sostegno di tipo psicologico, volto anche ad esplorare eventuali scelte o provvedimenti legali da prendere in considerazione del possibile declino delle abilità mentali (decisioni anticipate di trattamento, scelta di un eventuale amministratore di sostegno o tutore per il futuro…). Con il progredire della malattia, finché la consapevolezza rimane almeno parzialmente integra, la percezione di un senso di confusione e inadeguatezza e il confrontarsi con il peggioramento delle proprie capacità cognitive e sociali può essere molto doloroso e difficile.

Più frequentemente la consapevolezza di malattia è carente sin dalle prime fasi della malattia. In questi casi una più comune difficoltà per la persona malata di demenza fronto-temporale, non consapevole delle proprie difficoltà e dell’inadeguatezza dei suoi comportamenti e delle sue richieste, sarà confrontarsi con alcune limitazioni, per lei non legittime né comprensibili, che le vengono poste da parte dell’ambiente esterno e delle figure care (es. non consentirgli di guidare la macchina).

In generale il tipo di risposte ambientali che vengono predisposte per il contenimento del disturbo e la modalità relazionali con cui vengono attuate nella quotidianità per prevenire e/o ridurre i rischi e i disturbi psico-comportamentali può avere un impatto “benigno” o “maligno” sul benessere e sulla qualità di vita della persona malata. E’ fondamentale che questi interventi tengano al centro il benessere e la qualità della persona malata, agendo in maniera di supporto rispetto all’inadeguatezza acquisita con il progredire della demenza, dunque riducendo i rischi per la persona, ma anche mantenendonele potenzialità ancora presenti, la dignità, la possibilità di autodeterminazione, il mantenimento di abitudini e passioni, al fine di promuovere benessere e qualità di vita possibili. Il più delle volte si tratta di interventi di tipo psico-sociale. In questo un’adeguata formazione ai caregiver circa gli interventi psico-sociali e le strategie relazionali utili con la persona affetta da DFT può essere uno strumento indispensabile per ridurre le difficoltà della persona malata (oltreché del familiare stesso).

Per quanto riguarda la variante logopenica, un elemento di criticità può essere la percezione della propria incompetenza comunicativa o, quando non presente consapevolezza, gli esiti dell’incompetenza stessa. Anche in questo caso l’utilizzo di specifiche strategie comunicativo-relazionali da parte del caregiverpuò risultare cruciale nel ridurre il disagio, ottimizzare i potenziali e ridurre il deficit.

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Quali sono gli aspetti più difficili della malattia dal punto di vista dei familiari?

Gli aspetti più difficili e maggiormente fonte di stress per il familiare della persona affetta da malattia fronto-temporale sono da un lato la richiesta capacità di gestione delle alterazioni comportamentali della malattia e dall’altra l’elaborazione della trasformazione e della perdita relazionale dell’altro, nonostante la sua presenza fisica. I due aspetti sono tra loro fortemente interconnessi.

Le alterazioni comportamentali sono un tratto distintivo di questa malattia, soprattutto nella variante comportamentale. Esse comportano la necessità di profonde modifiche nella quotidianità familiare e, data la loro pericolosità e imprevedibilità,  richiedono una costante supervisione e la messa in atto di una serie di modifiche dell’ambiente, talvolta anche di ordine tecnico-amministrativo o legale. Le alterazioni comportamentali che compromettono l’adeguatezza sociale (impulsività, disinibizione,ipersessualità, comportamenti bizzarri)sono manifestazioni che possono creare al familiare forte imbarazzo o disagio, soprattutto in presenza di altre persone o luoghi pubblici. Altre alterazioni comportamentali, come aggressività verbale e fisica, costituiscono una sfida di comprensione della malattia per il familiare, spesso accompagnate da pesanti difficoltà di accettazione, oltre che di gestione. La sfida per il familiare nella gestione del disturbo psico-comportamentale del proprio caro riguarda quindi sia lo stress e la fatica legata all’individuazione di modalità efficaci per prevenire e/o ridurre il disturbo stesso (costi fisici e sociali), sia lo stress psicologico legato alla comprensione della situazione e al suo “riposizionamento”di ruolo nella relazione con la persona malata e nella dinamica familiare generale (costi emotivi).

E’ importante per il familiare poter ottenere informazioni circa la malattia e le possibili strategie psico-sociali da applicare, sui servizi territoriali disponibili, al fine di poter ottenere adeguato sostegno assistenziale e psicologico.

Se la persona manifesta comportamenti aggressivi, come si può intervenire?

Se la persona manifesta comportamenti aggressivi, la prima cosa da fare è mantenere la calma e tener presente che l’aggressività è un sintomo della malattia, dunque non è volontariamente e consapevolmente rivolta verso la persona in oggetto. L’aggressività può essere dovuta all’impulsività e alla disinibizione conseguenti al danno neuro-cognitivo oppure ad una situazione di confusione e agitazione legate ad una mancata comprensione da parte della persona malata di quanto sta avvenendo nella specifica situazione, a causa dei deficit cognitivi.

In questi casi mantenere una comunicazione pacata, senza rimproverare la persona o colpevolizzarla per il suo comportamento (la persona non è cosciente dell’irragionevolezza delle sue azioni), evita di aumentare lo stato di agitazione e progressivamente può contribuire a riportare la situazione alla normalità. Importante è cercare di individuare l’elemento scatenante (detto “antecedente”) il comportamento aggressivo: questo può essere utile per distogliere l’attenzione della persona da quell’elemento, riducendo l’aggressività e, in termini preventivi, per evitare il ripetersi della stessa situazione. Può essere utile provare a distrarre la persona.

Altre volte l’aggressività può essere una reazione alla difficoltà della persona a svolgere gli anche semplici compiti quotidiani. Se si osserva questa difficoltà può essere utile semplificare il più possibile l’ambiente e strutturarlo.

La farmacoterapia può risultare utile e/o necessaria per contenere gli episodi di aggressività.

In ogni caso va sempre considerata l’importanza dell’interazione tra contesto ambientale e disturbo psico-comportamentale: il contesto ambientale, infatti, può svolgere una funzione centrale tanto nel prevenire e/o ridurre l’intensità e la frequenza del disturbo psico-comportamentale quanto nell’innescarlo e/o aumentarlo. In questo senso agitazione e aggressività possono talvolta essere reazioni ad un ambiente relazionale o fisico non adeguato alle esigenze della persona malata e a volte addirittura dannoso: spesso in questi casi l’aggressività della persona con demenza è una reazione aggressiva ad un approccio relazionale che trascura o dimentica i bisogni fondamentali di dignità, integrità, autodeterminazione e relazione della persona, ad esempio con atteggiamenti infantilizzanti, oggettificanti o di sostituzione e ignoramento; questo insieme di interazioni inutili e dannose prende il nome di “psicologia sociale maligna”.

E’ fondamentale prestare sempre molta attenzione a questi aspetti. Un approccio attento alla dignità e all’integrità della persona consente di stimolare e ottimizzare le risorse e i potenziali ancora presenti, potenzia l’efficacia degli interventi psico-sociali o farmacologici e promuove salute, benessere possibile e qualità di vita, nonostante la malattia.

Qual è l’aspettativa di vita?

Il tempo di sopravvivenza medio dall’insorgenza dei sintomi è di circa 8 anni. Tuttavia l’aspettativa può variare anche significativamente da caso a caso (da 2 a 10 o più raramente fino anche a 20 anni).

A che età ci si può ammalare di demenza frontotemporale?

La maggior parte dei casi di demenza frontotemporale insorge tra i 50 e i 65 anni. Tuttavia è possibile ammalarsi anche prima o più tardi.

Quali sono i trattamenti e le cure disponibili?

Al momento non sono disponibili terapie o farmaci in grado di curare la malattia o di rallentarne l’evoluzione. Sono tuttavia disponibili trattamenti e terapie farmacologiche in grado di ridurre alcuni dei sintomi della malattia, migliorando la qualità di vita della persona malata e di chi se ne prende cura. Il tema delle terapie farmacologiche verrà a breve affrontato in un altro articolo.

Interventi psicosociali e psicoeducazionali: possono essere molto utili ed efficaci per la prevenzione e/o gestione di alcuni disturbi psico-comportamentali. Identificare le aree problematiche nella vita di tutti i giorni e mettere in atto delle strategie relazionali o di modifica ambientale specifiche può essere determinante per migliorare la qualità di vita della persona malata e di chi se ne prende cura: talvolta alcuni semplici accorgimenti possono fare la differenza.

Interventi di stimolazione cognitiva possono contribuire a mantenere i potenziali cognitivi residui (linguaggio, pensiero, memoria).

Alcune specifiche strategie di supportoper la comunicazione possono consentire di mantenere più a lungo la competenza comunicativa della persona malata, riducendo la disabilità comunicativa, mantenendo per il paziente un canale di espressione dei propri bisogni e di relazione efficace con il familiare.

Fisioterapia: consente di ridurre le difficoltà motorie e mantenere più a lungo i potenziali motori.

Quali sono le scoperte scientifiche più recenti in termini di diagnosi e di fattori di rischio-protettivi?

Le più recenti scoperte scientifiche in termini di diagnosi afferiscono alla ricerca in ambito genetico e riguardano l’isolamento di alcuni geni associati alla demenza fronto-temporale, che possono influenzare la suscettibilità alla malattia, aprendo nuove prospettive per futuri target terapeutici nella malattia.

La più recente scoperta vede protagonisti i ricercatori Rosa Rademakers, della Mayo Clinic degli Stati Uniti e Bryan Traynor, del National Institutes of Health, i quali, in maniera indipendente, hanno entrambi individuato una mutazione in un gene nel cromosoma 9, il gene C9ORF72. Questa mutazione è la più comune causa familiare identificata non solo per la DFT, ma anche per la sclerosi laterale amiotrofica. La scoperta è risultata particolarmente significativa perché ha individuato un collegamento genetico fra due malattie che clinicamente appaiono molto differenti tra loro e può quindi fornire informazioni chiave per nuove strategie terapeutiche; nella sclerosi laterale amiotrofica il deterioramento è prevalentemente a carico dei muscoli, mentre nella demenza fronto-temporale sono il comportamento e la personalità a cambiare drasticamente. La scoperta è valsa ai due ricercatori il Premio Potamkin 2016 per la ricerca su malattia di Pick, Alzheimer e malattie correlate da parte dell’American Academy of Neurology.

Ci sono libri o altre fonti che potrebbe suggerire a una persona non esperta per saperne di più sulla malattia?

Consiglio il sito dell’Associazione Italiana Malattia Frontotemporale (AIMFT): http://www.frontotemporale.it/.
Nello stesso sito è reperibile un opuscolo chiaro e ben fatto sulla malattia fronto-temporale (scaricabile in formato PDF), con una sezione di approfondimento sui disturbi comportamentali tipici della DFT e dei consigli pratici per poterli affrontare:

Fai clic per accedere a libretto_low_04.pdf

Per chi possiede una buona dimestichezza con la lingua inglese, suggerisco anche il sito dell’Associazione Americana per la Demenza Frontotemporale (http://www.theaDFT.org).

Dott. Luca Flesia
luca.flesia@ordinepsicologiveneto.it

Psicologo, Psicoterapeuta, da anni si occupa di tematiche relative all’invecchiamento normale e patologico. Lavora in Centri Servizi per Anziani, in struttura residenziale e semiresidenziale, collaborando con l’équipe alla formulazione dei Piani Assistenziali Individualizzati. Si occupa di prevenzione e valutazione dei disturbi cognitivi, emotivi e comportamentali e svolge attività di consulenza e sostegno a chi si prende cura di persone anziane. Socio SIPI (Società Italiana Psicologia dell’Invecchiamento).

3 thoughts on “Demenza Frontotemporale: Il parere dello psicologo

  1. ciao,mi chiamo Ignazio manzella,vivo a Cornaredo (mi),ho letto,a me sono venute 2 scariche ai 2 lobi del cervello,occludendomi la parte centrale del cervello,non ho più il classico chiacchiericcio ,ora non mi si accavallano i pensieri anzi ad averne.sono in attesa dei referti,ho fatto la risonanza a risentirci.

    1. Buongiorno Ignazio, grazie per averci scritto. Mi spiace moltissimo per quello che sta vivendo. Dev’essere angosciante l’attesa per il risultato delle analisi a cui si è sottoposto. A questo proposito ci tengo a dirle che se ha voglia di parlarne con noi, può chiamarci al nostro numero 327-0719117. Le siamo vicini. Un caro saluto, Eloisa

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