“Non lasciatevi vincere dalla malattia”: L’Alzheimer giovanile raccontato da Michela

Vi presento Michela e Paolo, una coppia come tante, bella, solare, piena di vita, con due bimbi piccoli, un lavoro, tanti amici, tante cose da fare e una vita ancora da scoprire. Un bel giorno Paolo comincia a dimenticarsi piccoli e grandi impegni quotidiani, diventa sempre più nervoso, chiuso, cambia atteggiamento nei confronti della moglie e dei figli. Michela comincia a sospettare qualcosa di grave, prova a parlarne con Paolo ma la sua preoccupazione non viene compresa. Passa un po’ di tempo, le difficoltà di memoria aumentano, così come aumentano i conflitti in famiglia. Finalmente, su insistenza di Michela, Paolo decide di consultare un medico. Passano altri lunghissimi mesi e finalmente arriva la diagnosi: si tratta di una forma di Alzheimer atipica con esordio giovanile. Da lì in poi inizia il caos. La vita di Paolo e Michela si trasforma in una corsa a ostacoli, tra ambulatori medici e sportelli pubblici, che li rimbalza da Milano a Padova a Vicenza a Brescia a Venezia. E non è ancora finita.

La loro è una storia purtroppo abbastanza comune nelle famiglie che affrontano l’impatto di una demenza in età non sospetta. Vale a dire, in un momento della vita in cui la persona che si ammala è nel bel mezzo della propria vita, magari ha 30, 40 o 50 anni, ha ancora figli da crescere e mantenere, bollette e mutui da pagare, impegni lavorativi e progetti da portare avanti, responsabilità di cui rispondere ecc.
Certo, si potrebbe pensare che qualunque malattia degenerativa abbia un impatto devastante sulla vita di una persona, soprattutto quando è così giovane.

Tuttavia, come potrete leggere nell’intervista che trovate qui sotto, quello che aggiunge un bel po’ di sofferenza evitabile a una situazione già di per sé drammatica, è rendersi conto di quanto la nostra società sia impreparata a prendersi cura di persone come Paolo e Michela. Non solo dal punto di vista delle cure mediche, ma soprattutto dal punto di vista delle cure sociali. Vale a dire, tutte quelle cure sotto forma di assistenza, riabilitazione, informazione, sostegno morale e così via che ti permettono di sviluppare “gli anticorpi” necessari per andare avanti con un minimo di serenità, senza essere spazzati via dal senso di abbandono e disperazione.

Si può fare di più e di meglio. Lo dobbiamo ai Paolo e Michela del mondo.

Buona lettura,

Eloisa


Michela racconta la sua vita dopo la diagnosi di Alzheimer giovanile di suo marito

Michela e Paolo

Ciao Michela, come vuoi presentarti?

Ciao Eloisa! Chi sono o chi volevo essere? Sono Michela, una persona innamorata della vita, duramente provata dalle disabilità ortopediche che mi limitano nel camminare ma che di sicuro non bloccano il mio carattere caparbio che ho forgiato negli anni. Sono una persona solare, autoironica, che ama stare in mezzo alle persone, una appassionata di cucina che voleva fare di questa passione un lavoro, una sognatrice nata, un mamma, una moglie… una… vedova bianca!
Sì! Ultimamente mi trovo sempre più spesso a sentirmi così perché sento di aver già “perso” il mio compagno di vita, la mia spalla, il mio appoggio, il completamento di me stessa… sento tutto il peso delle decisioni, delle  responsabilità che riguardano sia la sfera familiare, ma anche tutto ciò che è casa, lavoro e anche divertimento. Non mi posso più rapportare con mio marito in un dialogo ed un confronto alla pari, perché lui non è più in grado di farlo quindi non riesco a capire se sta bene, se ha qualche bisogno diverso da quello che penso io, perché purtroppo mi scontro con il muro di apatia che lo circonda e che diventa sempre più difficile varcare.
In un età in cui si hanno ancora tantissime incombenze ed oneri familiari e sociali, mi ritrovo alla deriva, in balia degli eventi con la paura di non fare mai abbastanza affinché Paolo, mio marito, possa stare bene e riesca a comunicarmelo.

Com’è iniziata la malattia di Paolo?

Premesso che ero a conoscenza, in modo molto vago, della patologia che aveva colpito in maniera precoce il papà di mio marito, ovvero il Morbo di Pick [ndr. oggi conosciuta come una variante della demenza frontotemporale], pare diagnosticato a 48 anni e che per le conseguenze a lui collegate, ha portato alla morte di mio suocero a 59 anni nei primi anno ’80. Ho iniziato a preoccuparmi perché Paolo ha cominciato a manifestare – o forse è meglio dire ha acuito – parecchie dimenticanze: non ricordava gli appuntamenti e mi accusava fosse colpa mia; non era in grado di gestire i bambini e se la prendeva con me; non riusciva a svolgere le sue attività quotidiane e non accettava che io gli ricordassi le cose non fatte… aveva tutta una serie di vere e proprie dimenticanze che sfociavano in aggressioni verbali nei miei confronti. Passano i mesi e lo costringo ad andare dal medico di base per un consiglio facendogli notare che, vista la precedente problematica in famiglia, era il caso di interpellare un neurologo. Mi ascolta e a ottobre 2014 iniziamo il nostro calvario. All’epoca Paolo aveva 43 anni appena compiuti, avevamo un bimbo di un anno e uno di 5.

Come siete arrivati alla diagnosi definitiva?

La diagnosi più o meno definitiva è arrivata dopo più di due anni di pellegrinaggi negli ambulatori di vari specialisti in Lombardia e Veneto e una lunga serie di delusioni e insuccessi di varie terapie farmacologiche e cognitive. Abbiamo ricevuto l’esito definitivo a seguito di una PET cerebrale con radiofarmaco. Quando abbiamo sottoposto gli esiti al nostro neurologo di riferimento presso l’ospedale di Portogruaro ci ha confermato il suo timore iniziale: si tratta di ALZHEIMER!
Era il 19 dicembre 2016, il giorno del nostro anniversario di nozze.

Come hai vissuto all’epoca la notizia e cos’è cambiato per te da allora?

Come ho vissuto la notizia… beh, la parola “Alzheimer” è entrata nella nostra vita quando Paolo ha cominciato ad avere grosse difficoltà nel gestire i suoi impegni quotidiani. Man mano che passava il tempo, erano sempre più evidenti difficoltà lavorative e di comportamento. Ed è così che io mi sono trovata catapultata in una nuova fase della mia vita. La mia consapevolezza della malattia, celata inizialmente da tanto diniego – e comunque non capita da tantissimi specialisti – è arrivata per gradi. Per tanto tempo sono stata accusata di ingigantire i cambiamenti che notavo in Paolo, mentre io insistevo che non si trattava di “semplice depressione”, o di esaurimento ecc.  Con la diagnosi definitiva, “finalmente”  le mie preoccupazioni avevano un nome – un nome difficile da scrivere ma che conoscevo bene e temevo alla luce delle ricerche che avevo fatto per conto mio già da tempo.
Cosa è cambiato per me? TUTTO! Ho preso coscienza della realtà che Paolo ha una malattia  inguaribile che ha un decorso altamente devastante!
Cosa è scattato nella mia mente? All’epoca ero convinta che data la giovane età di Paolo, si trattava di un caso abbastanza raro e quindi mi aspettavo che i medici facessero a gara per curarlo, per studiarlo, per rivoltarlo come un cosiddetto calzino.
A distanza di anni posso dire che per tanto tempo ho creduto, o ho cercato di credere, che in qualche modo ne saremmo usciti: non poteva che essere così! Me la sono presa anche con Paolo – purtroppo a volte succede anche adesso, quando non riesco più a reggere tutto il peso del mondo sulle mie spalle. Quando non ho più energie per affrontare tutte queste responsabilità, quando non riesco più a fare sia da mamma che da papà ai nostri figli, da marito e moglie in tutte le incombenze famigliari, diventa tutto ancora più difficile e cedo al sospetto che Paolo mi stia prenda in giro quando non riesce a ricordarsi quanto detto o fatto 5 secondi prima. E invece non è affatto così: è l’Alzheimer che sta compromettendo sempre di più la sua memoria e me lo sta portando via!

Come stanno vivendo i tuoi figli queste difficoltà?

Come tutti i bambini, i nostri figli sono pieni di risorse. Sicuramente ne hanno più di me! Io li guardo e mi rendo conto che anche se sono ancora piccoli sono costretti a crescere molto in fretta, rinunciando almeno in parte alla spensieratezza della loro età. Purtroppo hanno dovuto, devono e dovranno fare i conti quotidianamente con la maledetta malattia del papà! Mattia, il maggiore che oggi ha 9 anni, ha fatto alcuni incontri con una psicologa. Lui ha avuto più tempo per conoscere suo padre prima della sua malattia, quando ancora riusciva a giocare e fare progetti con lui. Invece man mano si è ritrovato a fare da genitore al proprio padre; non per scelta ma per dovere, esigenza, umanità!
Andrea il nostro secondogenito di 6 anni ci è da subito parso troppo piccolo per comprendere appieno la portata della disgrazia familiare, troppo cucciolo  per ricordarsi del papà che lo cullava tutta la notte quando aveva le coliche da neonato. E invece Andrea è il bimbo che 15 giorni fa, dopo averlo ripreso perché si era arrabbiato per una dimenticanza del papà, ha abbracciato Paolo e ha pianto tutte le lacrime che poteva, senza riuscire a smettere finché, tra i sussulti, mi ha detto che era triste perché si ricordava del padre “quando non era ancora ammalato”. A quel punto le mie e le sue lacrime si sono mescolate in un pianto di profondo sconforto.
Non avrei mai voluto che l’infanzia dei miei figli venisse “rubata” da una malattia che li costringe a doversi prendere cura del loro papà invece che giocare spensierati.

Tutti questi cambiamenti devono aver profondamente sconvolto le vostre dinamiche famigliari. Quali sono gli aspetti più difficili che state vivendo in questo periodo? C’è qualcosa che ti preoccupa o ti mette in difficoltà in modo particolare?

Sconvolto è dir poco! La nostra vita è stata completamente devastata, privata di tutto, siamo rimasti senza sogni, senza aspettative. E’ una malattia che toglie la dignità all’ammalato e a chi lo assiste, risucchiandolo nelle spire di questo male che avvolge tutti! La cosa più difficile di questo periodo è il peggioramento di Paolo e il suo chiudersi in se stesso. E’ un aspetto della malattia che mi fa sentire ancora più SOLA di quanto già mi senta ogni giorno.
Le decisioni da tempo ormai sono tutte mie. Non rinuncio a parlare, parlare e parlare a Paolo e a dirgli tutto ciò che devo fare, che “dobbiamo” fare insieme. Lui annuisce ma non so quanto sia ancora in grado di capire tutto quello che gli dico. Ciononostante, lui è il MIO Paolo e io devo rendergli conto di tutte le scelte fatte. Abbiamo cambiato casa da 6 mesi; i miei genitori hanno costruito per noi una villetta con giardino, vicino a loro, per darci una mano con la gestione dei bimbi e di Paolo. Nel lungo anno e mezzo tra progetti e costruzione, Paolo è sempre stato con me anche nella scelta dell’ultima vite a croce messa in casa. E’ anche casa sua e lui deve decidere con me!

Da quando ci conosciamo parliamo spesso del fatto che ricevere una diagnosi di Alzheimer a 40 o 80 anni fa un’enorme differenza. Cosa ti saresti aspettata dopo la diagnosi in termini di supporto medico o di assistenza proprio in considerazione della giovane età di Paolo?

Premesso che la demenza è terrificante a qualsiasi età, non nego che in casi di persone giovani come Paolo l’impatto sia più gravoso, distruttivo e devastante. Uomini come lui, nel pieno della loro forza lavorativa e della loro vitalità, con figli ancora piccoli, con mutui ancora da pagare per molti anni, con tutta una vita ancora davanti e che tutto ad un tratto perdono tutto a causa di una malattia che minaccia la loro dignità e che li priva di tutto ciò che hanno di più caro… incluso la loro libertà… Ripeto, io mi aspettavo VERAMENTE una gara per “salvare” Paolo, per aiutarlo a rallentare il male, per coinvolgerlo in qualche studio sperimentale anche, perché no, come cavia. E’ sempre stato anche il suo volere e la sua speranza: partecipare alla sperimentazione clinica per contribuire in modo tangibile alla ricerca di una terapia definitiva. Lo ha detto a tutti i medici che lo hanno avuto in cura. In questi anni, ha lottato perché vuole vivere ed è ben consapevole, suo malgrado, di come andrà a finire, in virtù della sua esperienza di figlio-caregiver del proprio padre ammalato di demenza. Mi ha sempre detto di voler sottoporre il suo caso alla scienza affinché i nostri figli, avendo ricevuto una terribile eredità genetica, possano un giorno essere curati per tempo nel caso sviluppino la sua malattia degenerativa.
Nulla di tutto questo è stato possibile; a partire dalla difficoltà della diagnosi, è stato tutto un continuo susseguirsi di porte sbattute in faccia!

Oltre alle delusioni in ambito sperimentale, qual è la realtà che state vivendo in termini di servizi post-diagnostici?

Non esistono centri diurni riabilitativi per giovani ammalati di Alzheimer che possono e vogliono dare ancora molto. Quando va bene, al massimo accedono a centri (ndr. di sollievo) sono frequentati da ammalati molto più anziani di Paolo, con esigenze e bisogni a livello riabilitativo molto diversi da chi ha 40 o 50 anni. Seppure con più difficoltà, Paolo riesce ancora a fare piccoli lavoretti con la supervisione di qualcuno: perché non farlo sentire ancora utile dandogli la possibilità di sfruttare tutte le risorse ancora disponibili?
Inoltre la malattia giovanile di Paolo ha incontrato molti ostacoli e difficoltà, anche in ambito socio-assistenziale. Ho dovuto combattere fortemente, per far sì che a Paolo venissero riconosciuti gli stessi diritti e le stesse indennità previsti per altre tipologie di ammalati, per i quali esiste un iter ben più agevolato per ottenere gli aiuti del caso.
Mi sono spesso chiesta i motivi di queste differenze di trattamento, le cause alla base della scarsa informazione che abbiamo rilevato nelle autorità competenti rispetto alle demenze giovanili, il perché è per loro difficile leggere documenti e certificati di medici ospedalieri, ma anche perché hanno sempre guardato me e Paolo con sospetto quando abbiamo dovuto rispondere alle loro domande.

Per quasi un anno avete sperato di poter entrare in uno studio clinico per la sperimentazione di una nuova terapia per l’Alzheimer che stanno portando a livello internazionale. Purtroppo proprio negli scorsi giorni avete ricevuto la notizia che questa strada non è percorribile perché Paolo non rientra nei parametri richiesti dallo studio (vale a dire, l’età minima dei soggetti sottoposti allo studio è di 50 anni). Tuttavia so anche che non vi state dando per vinti e state cercando altre strade. Come vi state muovendo?

Sì verissimo! Abbiamo preso un bella batosta! Abbiamo passato mesi di snervante attesa con la paura tangibile che Paolo peggiorasse talmente tanto da non poter essere inserito nel protocollo sperimentale. Ci siamo illusi, abbiamo sperato in tutto e per tutto, consci del fatto che non ci sono cure definitive, ma comunque con la voglia e l’esigenza di avere un flebile appiglio di speranza. Ci speravamo tutti e insieme abbiamo fatto il possibile: anche i bambini hanno fatto la loro parte per incoraggiare il loro papà mentre attendevamo di sapere se poteva entrare nello studio di sperimentazione. Cosa posso dire ai miei figli adesso? Che la scienza è più interessata ad una persona di 80 anni piuttosto che ad un giovane papà quarantenne che combatte già da 5 anni contro un male che lo ha privato di ogni sogno e ha compromesso la sua aspettativa di vita? Cosa posso dire? Che un colosso farmaceutico statunitense ha decretato che il loro papà può rinunciare a vivere e a 47 anni deve starsene buono in disparte in attesa di una morte lenta ed agognata?
NO IO NON CI STO! Grazie al sostegno di grandissime persone conosciute virtualmente è stato scritto un post e trasmesso via social Facebook, Messenger e ancora Whatsapp per promuovere la causa di Paolo per potere entrare in uno studio sperimentale per la ricerca di nuove terapie contro l’Alzheimer. Ad oggi, il risultato è che abbiamo coinvolto più di 20.000 persone e insieme abbiamo fatto una petizione on-line che ha già raccolto quasi 2.000 firme. Abbiamo anche scritto a trasmissioni televisive di nicchia, a programmi dai grandi ascolti, inviato mail e messaggi ad assessori, ministri, politici… Non mi aspettavo tanta risonanza: in pochi giorni i nostri appelli hanno ricevuto una solidarietà che mi ha commosso ad ogni singolo post. Ho ricevuto tante testimonianze e commenti di persone che hanno avuto i propri cari ammalati, o che si prendono ancora cura di familiari con demenza giovanile, e che come noi hanno subito o subiscono gli stessi limiti in termini di cura e assistenza imposti dall’alto. Sono tutte persone che, attraverso la storia del MIO Paolo, hanno avuto il coraggio di dare dignità ai loro familiari ammalati e di esporsi in un’unica grande protesta. Non so cosa potrò ottenere con questa campagna di sensibilizzazione; qualche mese fa avevo già provato a scrivere lettere e post sui social per smuovere un po’ l’opinione pubblica, senza però ottenere molto. Spero non cada di nuovo tutto nel  dimenticatoio perché l’Alzheimer toglie la memoria ai nostri cari ma noi non dimentichiamo chi sono e chi erano. Né dimentichiamo quanto sia importante dare loro cure e assistenza adeguati.

Alla luce della tua esperienza, cosa consigli a chi ha un coniuge o un partner che ha appena ricevuto una diagnosi di demenza giovanile?

Beh, nonostante il percorso duro e pieno di salite che abbiamo fatto noi, e soprattutto visti i pochi risultati ottenuti, consiglierei comunque di non lasciarsi vincere dalla malattia, ma di combattere e vendere cara la pelle. E’ altrettanto importante stimolare il più possibile la persona ammalata con passeggiate, attività all’aria aperta e sport affinché possa ossigenarsi bene e godere delle belle giornate. Bisogna anche trovare il modo per farli sentire ancora utili con piccoli compiti, lavoretti, commissioni varie anche se è necessario di qualcuno che li assista. Ma soprattutto è fondamentale aiutarli a non “morire dentro”, incoraggiandoli a godere di tutta la vita che hanno ancora da vivere: parlategli, teneteli al corrente della vita che scorre e delle cose che fate per voi e per o con loro.

Qual è la tua speranza per il futuro?

La mia speranza per il futuro ovviamente è che trovino al più presto una cura risolutiva per la malattia e che sia possibile avere subito una diagnosi per correre subito ai ripari. Dopo aver tentato in tutti i modi di “salvare” Paolo, la mia missione è rimanere aggiornata su quel che succede, documentandomi, leggendo, ascoltando… La mia speranza è che i miei figli un giorno non abbiano più paura di questa malattia e che quindi non siano più costretti a chiedere se POSSONO AMMALARSI COME IL LORO PAPA’”!