Storie di vita: la testimonianza di Kris

kris-and-alan1
Kris Bakowski e suo figlio Alan

Da qualche tempo sono alla ricerca di storie di vita scritte da italiani affetti da demenza o da declino cognitivo. Purtroppo finora le mie ricerche non hanno portato a molti risultati. Sono però fiduciosa che nei prossimi mesi, anche grazie alle nuove attività che stiamo per inaugurare, riusciremo a raccogliere qualche testimonianza made in Italy.

In attesa di storie inedite e noviluniche, oggi vorrei inaugurare la nuova rubrica “testimonianze” proponendo la storia di Kris Bakowski, una signora di 54 anni che vive in Georgia, negli Stati Uniti, e che all’età di 46 anni è stata colpita da una forma precoce di Alzheimer.

Nella sua semplicità la storia di Kris rende dolorosamente palese che di fronte a una malattia così poco capita come l’Alzheimer quello che fa più male è soprattutto l’assenza di senso e sensibilità nella vita di tutti i giorni.

Se avete commenti o storie da condividere, potete lasciare un messaggio qui sotto o scriverci a info@novilunio.net.

Buona lettura!

Eloisa

——————————————————————-

Convivere con l’Alzheimer a 5 anni dalla diagnosi

Penso che arrivi per tutti un momento nella vita in cui ci prendiamo una pausa per riflettere sul passato, per comprendere il presente e per guardare al futuro. Quel momento per me è arrivato all’età di 46 anni. Ero sposata da più di vent’anni, nostro figlio era al primo anno di università, ero felice del mio lavoro e mio marito non vedeva l’ora di andare in pensione. Eravamo tutti sani, cercavamo di tenerci in forma, di seguire una dieta equilibrata e di vivere una vita attiva.

Tuttavia, nell’autunno di quell’anno cominciai ad avere problemi di memoria – cosa per me completamente inusuale. [Ndt. Fino ad allora,] avevo avuto una memoria quasi fotografica su cui avevo fatto affidamento per tutta la mia vita. Avevo un lavoro molto stressante e lavoravo per molte ore al giorno, ragion per cui attribuii la mia smemoratezza a questi fattori. Non riuscivo a ricordare cose come il numero di telefono di casa, il nome dei miei colleghi e, nei giorni peggiori, come arrivare a casa.

Mi ricordo che spesso mi fermavo a un distributore di benzina e, dopo aver fatto il pieno, non riuscivo a ricordare se stavo andando al lavoro o stavo tornando a casa. Nella disperazione, diventai molto brava a nascondere quello che mi stava succedendo. Tuttavia un giorno in dicembre, mentre stavo facendo shopping con mio marito, lui si allontanò per andare in un altro reparto del negozio. Rimasta sola, improvvisamente non riuscivo più a ricordarmi dov’ero o com’ero arrivata in quel posto. Era arrivato il momento di confessare cosa stava succedendo.

Andai dal medico e, dopo otto lunghi mesi di esami (elettroencefalogramma, elettrocardiogramma, risonanza magnetica, analisi del sangue, puntura lombare, iniezioni di vitamina B12, test neuropsicologici ecc.), mi comunicarono che avevo la malattia di Alzheimer.

[Ndt. La diagnosi per me] fu un sollievo perché quello che stavo vivendo aveva finalmente un nome. Nonostante si trattasse di una malattia incurabile, almeno sapevo con cosa avevo a che fare. La mia famiglia, tuttavia, adottò un punto di vista meno positivo. Mio marito la paragonò al Titanic – mentre la nave stava affondando, lui e mio figlio stavano per sopravvivere al disastro mentre io stavo soccombendo. Mio figlio disse invece che era come se, nonostante fosse innocente, sua madre fosse condannata al braccio della morte.

L’Alzheimer non è una malattia di famiglia, o almeno comunque non mi risulta che lo sia. I miei genitori sono entrambi morti per cause diverse quando avevano una sessantina d’anni. Dato che mio padre fu adottato quando era giovane, non seppe mai la storia clinica della sua famiglia di origine.

Dopo la diagnosi, feci la mia prima telefonata all’associazione per l’Alzheimer della mia zona in Georgia. Le mie domande spaziavano da “Cosa mi aspetta adesso” a “Cosa posso fare per aiutare a trovare una cura?”. Il personale dell’associazione è stato per me una salvezza durante i primi giorni e mesi dopo la diagnosi. Mi ha fatto da guida e mi è stato vicino durante tutta la fase di “adattamento” alla malattia.

Tutto questo accadde cinque anni fa e, grazie ai farmaci in commercio, oggi riesco a condurre una vita tutto sommato “normale” – anche se la mia definizione di “normale” cambia tutti i giorni. Certamente non sono più la stessa persona di una volta. Non sono più così socievole, autonoma, estroversa e, decisamente, non sono più la mattatrice delle feste.

Ho detto addio alle cose che non posso più fare ma mi godo quelle che posso ancora fare. Ho giorni buoni e cattivi, come chiunque altro. A causa di questa temuta malattia, non posso più lavorare. Però provo ancora emozioni, proprio come tutti gli altri. Sono ancora una moglie, una madre, una sorella, una zia e un’amica, proprio come lo sono altre persone.

Questa è una malattia silenziosa. Silenziosa dal punto di vista di chi non vuole che se ne parli e non vuole accettarla neanche quando conosce qualcuno con la malattia di Alzheimer. Molte persone ti trattano come se avessi la peste e, quando vengono a sapere della malattia, si comportano come se ne diventassero infetti loro stessi. Per noi che siamo ancora molto autonomi nonostante l’Alzheimer tutto questo è molto difficile da vivere. Quello che vogliamo è che le persone capiscano questa malattia, perché solo in questo modo riusciremo a raccogliere i fondi necessari a combatterla.

Non credo che sarò ancora viva quando si scoprirà la cura all’Alzheimer ma spero che se mio figlio, raggiunta la mezza età, scoprirà di aver ereditato la malattia da me, per lui ci saranno più cure disponibili. Per quanto mi riguarda, la cosa peggiore di questa malattia non è tanto quello che fa a me, quanto quello che fa alla mia famiglia. Non è giusto per loro dovere affrontare con me questo spiacevole viaggio. Mio figlio una volta mi ha scritto questo messaggio:

“So che ti preoccupi della tua malattia e dell’impatto che ha sui nostri rapporti, ma voglio che tu sappia che non penso tu sia cambiata come madre. Amo sentirti vicina e sono consapevole di tutte le forze che influenzano la nostra relazione. Tu sei rimasta incrollabilmente amorevole e comprensiva e di questo ti sono debitore. Ti devo la mia vita. Quello che mi rende triste è il fatto che nonostante sappia che ti amerò sempre, con il tempo tu non sarai più in grado di ricordartelo. Perciò ti dico più spesso che posso adesso “Ti voglio bene”.

Anche solo per questo, al di là di tutto, spero che troveremo una cura.

L’Associazione Alzheimer (ndt. Alzheimer’s Association negli Stati Uniti) è stata un mio partner. Ho potuto sentirmi utile diventando un’attivista, rilasciando interviste, partecipando a eventi per parlare della malattia. Se state leggendo questa storia e avete appena saputo che un vostro caro ha questa malattia o forse avete scoperto di averla voi, vi incoraggio a rivolgervi a un’associazione Alzheimer locale. Se non volete rivolgervi a loro, cercate aiuto altrove in modo tale che possiate capire di non essere soli. Il mio attivismo è per me “terapia” perché mi fa sperare che in qualche piccola misura sto contribuendo a combattere l’Alzheimer.

La mia famiglia e i miei amici mi aiutano ad affrontare le mie giornate. Anche altre persone con Alzheimer mi sono vicine per vivere meglio la malattia giorno dopo giorno. Amore e sostegno possono arrivare dalle persone più diverse. Affidatevi a chi vi vuole bene. Non siete soli nonostante sembri il contrario.

Molti di noi scrivono le loro esperienze nei loro diari, in libri o in blog. Io le racconto nel mio blog a questo indirizzo http://www.creatingmemories.blogspot.com/… C’è bisogno di tutti noi per combattere la malattia di Alzheimer.

Fonte: Alzheimer’s Association | Kris’ story

Le principali associazioni Alzheimer in Italia:

Cosa ne pensi di questo articolo? Lasciaci un commento