“Caro Dottore”: Eleonora racconta il giorno della diagnosi

Eleonora e Sandro nel 2015
Nella foto, Eleonora e Sandro 2015, un anno prima di ricevere la diagnosi di demenza frontotemporale.

Quest’anno inauguriamo il mese dell’Alzheimer e altre forme di demenza o disturbo neurocognitivo con la testimonianza dal titolo “Caro Dottore”, tratta dal nostro libro “Perso e Ritrovato“. Nel testo che segue, Eleonora racconta il giorno “spartiacque” in cui scoprì perché suo marito Sandro era cambiato tanto negli ultimi anni. Quel giorno il medico le disse che  Sandro si era ammalato, aveva una demenza frontotemporale – all’epoca aveva appena compiuto 50 anni.  Visto che è passato un po’ di tempo (era il 2016), abbiamo chiesto a Eleonora di scrivere una breve introduzione per raccontarci come sta/come stanno oggi e come hanno vissuto la loro vita in questi anni.

Buona lettura,

Eloisa

P.S. A proposito di Perso e Ritrovato: per tutto il mese il libro sarà disponibile con uno sconto del 50% sul prezzo di copertina. Se l’avete già acquistato, aiutateci a passateparola – con i proventi delle vendite ci aiuterete a pagare le bollette e sostenere i nostri gruppi di auto mutuo aiuto. Grazie di cuore da tutti noi!

CI SI PERDE, MA POSSIAMO RITROVARCI

In queste giornate estive di relativa calma, ho ripreso in mano il libro scritto insieme a molti miei compagni e compagne di viaggio. Ho riletto le diverse esperienze e ripensato per l’ennesima volta a quel fatidico 11 marzo 2016, in cui la parola DEMENZA è diventata la protagonista nella nostra famiglia e ha troncato di netto il percorso delle nostre vite. Da allora, tutti noi parliamo istintivamente di un “prima” ed un “dopo”, riferendoci al momento in cui abbiamo ricevuto la diagnosi di mio marito come ad uno spartiacque.

Dopo la diagnosi tutto è cambiato e, come spesso si sente dire, insieme a mio marito tutti noi ci siamo ammalati, nel senso che tutti siamo stati coinvolti in questa dura esperienza, ed ognuno di noi (mio marito, io e le nostre tre figlie) ha dovuto fare i conti con le proprie risorse per poter ritrovare un equilibrio.

E così, rileggendo e riflettendo, mi sono resa conto che il titolo del nostro libro, Perso e Ritrovato, è davvero centrato: è in sintesi il manifesto del percorso che tutti noi, familiari di una persona affetta da demenza, dobbiamo riuscire a superare per non essere risucchiati dalla malattia, per poter essere caregiver adeguati e mantenere una vita sufficientemente “sana”.

“Perso” è il termine più adeguato per descrivere l’impatto con questa malattia perché rimanda a quella persona che conoscevamo e che ad un certo punto non c’è più, che è fisicamente ancora presente, ma persa proprio nelle caratteristiche che per noi la rendevano riconoscibile. Ma “perso “è anche lo stato d’animo dei familiari, che non capiscono cosa stia succedendo, non accettano, non sanno, si trovano a dover gestire emozioni e sentimenti sconosciuti, oltre che a fare scelte importanti e difficili sulla pelle di una persona cara.                                                                                                                                                                 

“Ritrovato”  esprime però la speranza , che ci permette di non affondare nella  disperazione: ci si può ritrovare per esempio nell’umanità di un medico che ti aiuta ad affrontare e capire le diverse tappe, nel legame più forte e significativo che si può ricreare nella cerchia familiare, nella gioia di ri-trovare il proprio caro, al di là delle sovrastrutture del linguaggio e del comportamento socialmente accettato, nel  ricostruire una vita familiare in cui ognuno possa continuare a coltivare sogni e progetti, pur nei forti condizionamenti che la demenza comporta.

Soprattutto però, rileggendo e riflettendo in particolare sulla mia esperienza personale, successiva agli eventi raccontati nelle pagine che seguono, ho avuto ben chiaro un pensiero: tutte le altre mille vicissitudini che Sandro (e noi insieme a lui) ha dovuto affrontare dopo – tra cui il Covid-19 con sintomi importanti, incidenti anche gravi, il decadimento cognitivo e motorio che comportano una perdita di autonomia totale e le continue riorganizzazioni quotidiane – con i momenti di sconforto e di fatica che non sono mai mancati, con i continui dubbi per ogni scelta, con i sensi di colpa, ma anche l’aiuto ed il sostegno e il legame di un gruppo (i miei amati “Pionieri”) che non giudica e che mi insegna ad essere gentile con me stessa , che mi aiuta ad assaporare le piccole gioie, ad elaborare le mie emozioni e i miei pensieri… ebbene, alla luce di tutto ciò, mi sento una persona fortunata, serena, forte e ho superato la rabbia verso la vita che la diagnosi di demenza mi ha fatto in un primo tempo conoscere.

Ora, dopo ormai sei anni, guardo in faccia la malattia di mio marito, con dolore e senso di impotenza, ma anche con una dignità e con una consapevolezza che da sola forse non sarei riuscita a conquistare.

L’ amicizia nasce nel momento in cui una persona dice ad un’altra: Cosa? Anche tu? Credevo di essere l’unica! (Lewis)

Buona lettura,

Eleonora

CARO DOTTORE

11 marzo 2016

Caro Dottore,

 

Ancora non ci conosciamo e lei è oltre quella porta chiu­sa. Io sono qui fuori con mio marito Sandro, che pro­prio oggi compie 50 anni. Bel modo di festeggiare un com­pleanno, vero?

 

Certo, avrei potuto fissare l’appunta­mento per un altro giorno, ma tanto probabil­mente sarebbe sta­ta comunque una brutta giornata. Sono mesi che nelle occasioni di festa la tensione cresce: io sp­ingo perché si festeggi il Natale con i parenti e Sandro si chiude in ca­mera; organizzo una cenetta al ristorante per San Valen­tino e Sandro mi fa entrare alle 18,45 (pratica­mente ce­niamo con i camerieri) per riportarmi a casa alle 19,30; chiedo di fare una gita con le nostre figlie e Sandro, giun­ti alla meta, decide che si ritorna tutti a casa dicendo che il posto non gli piace.

 

E da qui, litigate furiose e giorni di mutismo. Per cui, es­sere qui in questa giornata particolare, non mi aveva de­stato nessuna tristezza, perlomeno fino a che l’infer­miera dell’Accettazione non ha fatto la sua battuta pro­prio sull’ironia della sorte che ci ha fatto questo bel re­galo. Tra l’altro aggiungendo una battuta sul fatto che sono troppo giovane per frequentare certi posti. Allora forse sono io che sono fuori di testa? Cosa mi è saltato in men­te di venire in questo posto?

 

Comunque dottore, or­mai siamo qui e spero che lei possa aprire presto quella porta perché non so per quanti minuti riuscirò a trat­tenere mio marito, il quale poco fa, leggendo “Centro Alzheimer” sul­la vetrata d’accesso al reparto, mi ha guardato con un’aria tra l’ironico e lo sprezzante, facen­domi sentire un’aguzzi­na che introduce la vittima ad Auschwitz. Sarà l’assonan­za tedesca tra i due nomi, ma l’immagine che ho avuto è proprio questa: la scritta in stampato maiuscolo mi ha fatto per un attimo con­fondere la parola “Alzheimer” con “Auschwitz” e ha lasci­ato in me un senso di angoscia – se si poteva aggiungerne a quella che già mi porto da casa.

 

Quindi, del tutto con­trario a fare questa visita, perché se­condo lui va tutto bene, e preso dalla solita impazienza che lo porta a dire “Andiamo” dopo circa 30 secondi di stasi, io e Sandro ci ritroviamo qui nel corridoio a cammi­nare avanti e indi­etro. Mentre aspettiamo, io gli faccio notare l’inconve­nienza di tutti i suoi comportamenti, ma lui continua os­tinatamente a comportarsi allo stesso modo. E nemmeno mi zittisce, come fa di solito un mari­to con la moglie rompiscatole ed assillante! Sandra Mon­daini e Raimondo Vianello al confronto sembrerebbero noiosi e banali.

 

E in tutto ciò, continuo a domandarmi se ho fatto una scelta opportuna e sensata. Ma la psicologa alla quale mi sono rivolta per parlare di tutte le difficoltà che stiamo vivendo in questo periodo – molte delle quali riconducibili a San­dro – mi ha consigliato di escludere problemi neurologici. A suo avviso, i sintomi che le ho descritto rientrebbero in un quadro di depressione, ma per scrupolo ha chiesto il parere di un neurologo. Per cui, eccoci qui.

                                                                                                                                                              

Quindi, ripeto, caro dottore, siamo qui fuori e quando ci farà accomodare non so come farò a raccontarle tutto ciò che sta accadendo a casa nostra: come potrò, in pochi mi­nuti, farle capire che accanto a me non c’è più l’uomo che ho sposato, che io un uomo così non lo avrei mai scelto, che non ho intenzione di continuare ad arrab­biarmi con un muro di gomma che fa rimbalzare tutta la mia rabbia addosso a me, senza nemmeno la soddis­fazione di un confronto, di uno scontro.

 

Ma in fondo, dottore, lei non è un consulente matri­mo­niale, e proba­bilmente mi zittirà dopo qualche secondo, come ha già fatto un suo collega non più di quindici giorni fa. Sì, per­ché in realtà tutta questa scena si è già in parte svolta quando ho chiesto, e profuma­tamente paga­to, un con­sulto privato con un neu­rologo. Prima della visita l’avevo chiamato al telefono per anticipargli alcune mie osser­vazioni ed evitare quindi di dovermi confron­tare aperta­mente in presenza di mio ma­rito, il quale nega e svaluta ogni mia affermazione. La vi­sita si è risolta con una grande rassicurazione da parte del neurologo – secondo me deve aver pensato che sarebbe stato più opportuno farla a me, la visita.

 

Per non lasciare nulla di intentato, prima di decidere che mio marito prenderà la sua strada e il nostro matrimonio potrà rite­nersi finito, ho chiesto ad una signora, che tra l’altro co­nosco molto vagamente e che ha un marito che fa strane cose (ad esempio, ripetere sempre la stessa frase e gli stessi gesti) quali siano stati i primi segnali di preoccupa­zione e a chi lei si fosse rivolta.

 

Certo che a volte si fanno cose guidati da un istinto che apparentemente non ha molto senso o ragione: non solo i comportamenti di mio marito non assomigliano per niente a quelli di quel si­gnore, ma con sua moglie non ci siamo più sentite per tre anni, dopo esserci conosciute quando mi occupavo di un progetto estivo in Comune. Eppure, guarda caso, ho tenu­to il suo numero di telefono e così mi sono fatta coraggio e l’ho chiamata. Quindi, dottore, se sono qui è perché quella signora mi ha con­sigliato di venire qui, anche se probabilmente ho sbagliato tutto. Ma ormai siamo qui e spero che presto lei possa aprire quella porta.

 

Ed ecco che finalmente la porta si apre e lei, dottore, ci accoglie e ci fa accomodare. Ovvia­mente rivolge a mio marito le doman­de di rito e lui le risponde benissimo. Gli chiede il motivo di questa visita e lui le risponde che è qui solo per fare contenta me, che sono preoccupata ma senza motivo. Gli chiede infor­mazioni sul suo lavoro, famiglia, interessi e lui le rac­conta una vita che non esiste più, ma per uno sconosciuto è tutto perfettamente credibile ed attendibi­le. Dopodiché chiede a Sandro di accomodarsi sul lettino e col martel­letto prova i riflessi del ginocchio, con una luce guarda nelle sue pupille e si appresta ad auscultare il suo cuore, mentre il mio sta uscendo dal petto perché so che se non approfitto di questi attimi per parlare e umi­liare mio marito, tra poco saremo fuori e il mio incubo ri­prenderà.

 

Ma ecco, caro dottore, che mentre Sandro si si­stema, lei chiama l’infermiera e con molta gentilezza le chiede di portare Sandro con sé. Dove lo porta? Cosa suc­cede? La mia testa non ragiona e negli occhi di Sandro cerco il per­dono per averlo portato qui, ma lui, con una spavalderia che non conosco, segue l’infermiera facendo apprezza­menti sul suo bel seno.

                                                           

A questo punto, caro dottore, lei si dedica a me ed inizia un colloquio che sinceramente non saprei dire quanto duri, mi sembra un’eternità. Tra lacrime e singhiozzi mi sfogo in modo molto confuso e le dico che Sandro da cir­ca un anno è cambiato, trascura la sua attività lavora­tiva, trascura la sua famiglia, trascura la sua persona, non ha più interessi, ha moltissime manie che condizionano an­che la quotidianità di tutti noi, è maleducato, disinibito, non ha mai soldi in tasca e non si preoccupa di dover pa­gare quello che prende.

E soprattutto, in un momento così difficile e doloroso per la nostra famiglia, segnato dai primi segnali di ano­ressia di una delle nostre figlie e dalla diagnosi di tumore in fase terminale di mio papà, lui sembra preoccupato solo di guardare video idioti al computer e mangiare ad ogni ora del giorno e della notte.

 

Ecco, ora che sono riu­scita ad esporle la situazione, sono nelle sue mani, caro e scono­sciuto dottore, ed ora pendo dalle sue labbra, rin­graziandola in cuor mio per avermi permesso di par­lare senza sentirmi né derisa, né giudicata, né messa in di­scussione. Anzi, al termine del mio sfogo, lei pronuncia questa frase, che rimarrà impressa nella mia mente così come la scritta Auschwitz/Alzheimer: “Signora, ovvia­mente dobbiamo fare accertamenti con esami strumenta­li, ma lei mi ha fatto una descrizione molto suggestiva di una malattia chiamata Demenza frontotemporale”. De­menza cosa?

Cosa significa? A questo punto dovrei porle mille do­mande, ma sono come paralizzata e comunque lei, giusta­mente, non intende esporsi oltre prima di avere la certez­za della sua intuizione. Quindi per ora ci salutiamo, in at­tesa di tutti gli accertamenti del caso

 

Mentre la saluto, so già che internet sarà il mio prossi­mo compagno notturno, alla ricerca di informazioni sulle possibili cure. Sì, perché sicuramente sarà dura, ma riu­sciremo a superare questa prova e la nostra vita tornerà alla normalità (beata ignoranza!).

                                  

Esco dalla porta e trovo Sandro che chiacchiera con la bella infermiera e mangia caramelle. Io sono distrutta e lui ha trovato una nuova amica!

                      

Grazie dottore, a presto. Grazie per avermi ascoltata e per aver dato un primo senso a tutto ciò che sta accaden­do.

 

– Eleonora

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Un libro di testimonianze di famiglie che ritrovano vita e significato oltre la malattia.