Qualcuno forse avrà notato che in questo blog raramente si parla di diagnosi precoce da somministrare alla popolazione generale, prima cioè che la malattia sia conclamata. Come ho già accennato altrove, mentre una diagnosi tempestiva, soprattutto quando la demenza è ai primissimi stadi, aiuta a far chiarezza sui sintomi ed è importante ai fini terapeutici, una diagnosi precoce a chi invece non è ancora malato è problematica, sia dal punto di vista medico che etico. Questo perché, come spesso sottolinea Peter Whitehouse, professore alla Case Western Reserve University, autore del libro “Il mito dell’Alzheimer. Quello che non sai sulla malattia più temuta del nostro tempo“, nonostante ogni giorno i giornali annuncino una nuova verità sulle cause o sulla cura per l’Alzheimer o la demenza, in realtà, le nostre conoscenze scientifiche in tema di decadimento cognitivo sono purtroppo ancora limitate.
Sicuramente negli ultimi anni sono stati fatti molti passi in avanti nella comprensione del nostro cervello, e in particolare sui concetti di riserva cognitiva, plasticità cerebrale, oltre che sui fattori che aumentano o riducono il rischio di malattia. Ciononostante, le traiettorie di chi si ammala o non si ammala, i motivi per cui alcuni di noi arrivano a 90 anni con capacità cognitive pressoché intatte, mentre altri hanno un decadimento cognitivo significativo già a 65 anni, oppure perché alcune persone riescono a convivere con un inizio di demenza relativamente stabile per oltre 10 anni (sto per pubblicare un articolo al riguardo), mentre altri sono già agli ultimi stadi della malattia dopo soli 5 anni dalla diagnosi… tutte queste variabili sono ancora poco chiare, anche ai più ferrati in materia. Senza contare che gli strumenti a nostra disposizione per ottenere diagnosi definitive, soprattutto a uno stadio a/pre-sintomatico, sono ancora poco affidabili.
Ragion per cui, parlare di diagnosi precoce è quantomeno azzardato, per non dire rischioso. I motivi di questi rischi, e le modalità per affrontare la malattia in maniera meno allarmistica, li spiega bene il Prof. Marco Trabucchi, Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP), nell’articolo che segue pubblicato lo scorso 16 febbraio sul Corriere della Sera.
A questo proposito, vorrei ricordare che in Italia esiste una rete consolidata di cliniche specializzate nella diagnosi del declino cognitivo. Tale rete è stata istituita nel 2000 dal Ministero della Salute a seguito del progetto Cronos, promosso dal Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia coordinato dallo stesso Prof. Trabucchi. Le singole cliniche (di solito) si collocano all’interno delle Aziende Sanitarie Locali (ASL), nei reparti di geriatria, neurologia o psichiatria, e prendono il nome di “Unità Valutazione Alzheimer”, oppure “Centro per l’invecchiamento cerebrale”, “Centro demenze”, ecc. Per accedere ai loro servizi, si consiglia di chiedere al proprio medico di base l’invio ai centri di valutazione delle demenze operanti nell’ambito della propria ASL di zona.
Buona lettura.
Eloisa
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