Oggi condivido una testimonianza importante di Elena, la nostra novilunica e membro del gruppo dedicato ai figli di persone con demenza. Definisco questa intervista “importante” perché in questo testo Elena è riuscita ad esprimere con coraggio e consapevolezza tanti vissuti difficili che accomunano l’esperienza di chi assiste un familiare con demenza.
Per chi si prende cura di una persona con demenza è per tanti versi impensabile aspettarsi di poter affrontare tutto da soli. I cambiamenti che si devono affrontare negli anni sono sempre troppi e tutti molto complessi.
Tuttavia è molto difficile chiedere aiuto quando la malattia viene vissuta come un trauma a lento rilascio di cui è impossibile farsene una ragione. A volte lo choc e il rifiuto diventano così grandi che si è costretti ad alzare muri altissimi per impedire tutto ciò che sta fuori, incluso l’aiuto disponibile e le parole per chiederlo.
Eppure si può uscire da quella fortezza. Elena ne è la riprova. Tuttavia, come leggerete, per lei (come per tanti al suo posto) ogni giorno è una sfida che richiede sforzi tanto immensi quanto ineluttabile. Quello che Elena sta cercando di fare, con tanto impegno al di là del suo dolore, è la ricerca di un nuovo senso. Quel senso necessario a ritrovare se stessa insieme al suo papà. Quel senso che permette di ricominciare a guardare la persona oltre alla sua malattia.
Buona lettura!
Eloisa
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Quando arriva il momento di chiedere aiuto
C’è sempre un momento, che se ci pensiamo bene ricordiamo nettamente, nel quale realizziamo che non possiamo farlo da soli. Un momento nel quale né l’amore né l’orgoglio né l’esperienza maturate né il bisogno di controllo bastano più per arrivare a fine giornata. Quando ci si occupa di una persona con demenza il momento fatidico arriva come uno schiaffo in faccia.
All’inizio si finge di non averlo visto, e si pensano cose del tipo “non è vero se mi sforzo troverò la soluzione anche a questo..”. Ma i problemi si moltiplicano, si presentano situazioni pericolose. A casa non c’è più l’ambiente in grado di rispondere ai sempre più numerosi problemi sanitari, l’attenzione 24 su 24 non è possibile, mancano le competenze che dovrebbero essere sempre più tecniche e specialistiche.
È così che si pensa ad una residenza per anziani, nella totale consapevolezza che quello è l’ultimo posto dove Lui vorrebbe stare. A parte il percorso lungo e tormentoso per arrivare ad avere accesso ad una struttura accreditata dal servizio sanitario nazionale, il percorso psicologico di accettazione è senza ombra di dubbio il più doloroso.
Ho sempre pensato che la demenza ti mettesse di fronte ad un lutto che non si concretizza, le sensazioni di perdita che provi nel non riconoscere più il tuo familiare, fanno i conti con il tuo senso di colpa per la necessità di decidere al suo posto. Lui sembra chiuso nel suo mondo che tu non conosci più… così ti fai interprete di sensazioni che in realtà non ti appartengono e portavoce di volontà tue e non sue.
Come è stato difficile vivere quell’uomo prigioniero delle sue fissazioni causate dalla demenza frontotemporale. Quanto mi ha messo a disagio verificare giorno per giorno le sue incapacità di fare, di essere… e soprattutto quella totale mancanza di empatia; come è stato difficile smettere di essere la figlia…
mi occupavo di tutto cercando di stare con te solo lo stretto necessario, non mi sono tirata indietro a nulla mi sono fatta carico di ogni cosa.. con rabbia e frustrazione.
Ora è cambiato tutto. Qualcun altro ti assiste, si prende cura di te e asseconda i tuoi bisogni… quelli fisici e materiali perché quelli psicologici o morali… quelli papà non li so interpretare o forse ho paura di farlo.
Portami a casa… quale casa papà, quella quando c’era ancora la mamma, quando eravamo bambine e tu tornavi dal lavoro e mangiavamo insieme a cena, quale casa? Quella dove vivevi solo dopo la morte della mamma… quale casa? Quella in cui la badante interveniva perché non ti facessi male con gli oggetti della cucina… dov’è papà la tua casa…se nessuno è più famiglia..
Chiedo ai miei figli di venire con me a trovarti, ma loro sentono ancora il disagio, non gli appartiene ancora il concetto di malattia che ti porta via… per fortuna credo. Ed io perché vengo? Per contenere i sensi di colpa? Tu sei ogni giorno diverso e sempre uguale, sei sempre meno mio e sei lì per colpa mia. Vederti peggiorare mi lacera il cuore, ora che sei prigioniero delle mie scelte riesco a provare dolore per la tua malattia che ho sempre rifiutato, che ho sempre odiato fino ad arrivare ad odiare te che ne manifestavi i sintomi.
Vivo la costante paura che stai peggiorando perché sei lì. Che sia tutta colpa mia… la caduta dopo 15 giorni che eri entrato in struttura e che ti ha relegato a una sedia a rotelle, le parole che sembra vorresti dire ma non riesci a formulare, il cibo che ti rovesci addosso mentre cerchi di mangiare da solo… il catetere che ti vuoi strappare…. Mi sento responsabile di tutto!!
Ho fatto quello che era giusto e me lo ripeto ogni istante, ma quest’anno è stato credo il più difficile da quando ti sei ammalato, eppure l’ho affrontato… come si affronta ogni cosa quando si presenta.
Ora devo assolutamente fare un cambiamento io, devo accettare quello che ci è capitato, devo ammettere che è dura, che non posso controllare ogni cosa. Ora posso riconoscere che sono stanca, fermare i pensieri raccogliere le energie e ridare un ruolo a tutti noi:
Tu sei mio padre, malato, come lo è stata la mamma. Io sono tua figlia. E anche se ho pensato fino ad oggi che nessuno fosse più se stesso ho sbagliato… ogni volta che non riconoscerò il tuo sguardo, leggerò nell’azzurro dei tuoi occhi dove ancora c’è mio papà e mi farò bastare questo. Finchè c’è un respiro ci saremo noi e cosa importa chi siamo, o chi siamo stati.
Ecco che anche il ricovero di papà assume il suo significato più profondo, quello di ridare a ciascuno il suo ruolo e la possibilità di vivere anche il proprio dolore… Quando arriva il momento di chiedere aiuto… bisogna farsi aiutare.
Elena