
Oggi vi proponiamo un articolo scritto dalla Dott.ssa Benedetta Leccese che affronta con chiarezza e sensibilità il tema delle demenze e del loro legame con la neuropsicologia forense. Se vi sembra un argomento tecnico, forse lo è, ma riguarda da vicino la vita quotidiana di chi convive con un disturbo neurocognitivo e dei suoi familiari.
Nei nostri gruppi, spesso emergono domande e paure: “Posso ancora guidare?”, “Riesco a gestire i miei soldi?”, “Come faccio a riconoscere una situazione di rischio?”. Sono dubbi che toccano la libertà, la dignità e la sicurezza personale, e che troppo spesso generano ansia e senso di smarrimento. Capire quali sono i propri diritti, gli strumenti di tutela e le responsabilità non è solo una questione legale: è un modo per ritrovare un po’ di serenità e orientarsi in un territorio nuovo e complesso. Questo articolo prova a fare luce su questi aspetti, con parole semplici e concrete.
Buona lettura!
Tra la clinica e il forense: la neuropsicologia come ulteriore chiave di lettura dei disturbi neurocognitivi
di Benedetta Leccese
Qual è il legame tra disturbi neurocognitivi, neuropsicologia e neuropsicologia forense?
Questo articolo, seppur non in modo esaustivo, nasce per rispondere a questa domanda. Il mio intento è principalmente quello di favorire una comprensione più chiara del ruolo e delle potenzialità di queste due discipline all’interno di una diagnosi così complessa.
In primo luogo è opportuno precisare che la parola “demenza”, nonostante venga ancora frequentemente utilizzata, è in realtà un termine generico che fa riferimento ad un declino globale delle funzioni cognitive. Non indica quindi una causa specifica, ma descrive un gruppo di sintomi che possono derivare da diverse condizioni patologiche.
Per questo e altri motivi, si preferisce parlare oggi di disturbi neurocognitivi, termine più ampio e specifico che fa riferimento a una serie di condizioni in cui le funzioni cognitive sono compromesse a causa di danni al cervello. Utilizzare questa terminologia aiuta ad includere una gamma di disturbi diversi (ad esempio l’Alzheimer, la demenza vascolare, i disturbi frontotemporali) senza ridurre il tutto a un’unica etichetta generica.
Infatti la ricerca con il tempo ha reso chiaro che queste condizioni non sono tutte uguali e che possono esserci cause, manifestazioni e forme di compromissione cognitiva differenti. In generale si tende a parlare di:
- disturbo neurocognitivo maggiore quando la compromissione cognitiva è tale da interferire in modo sostanziale con le attività quotidiane e con la capacità della persona di essere indipendente;
- disturbo neurocognitivo minore quando il deterioramento cognitivo è più lieve, le difficoltà cognitive vengono percepite dalla persona ma non sono tali da invalidare la sua quotidianità e autonomia.
Detto questo, i disturbi neurocognitivi sono caratterizzati da un’alterazione progressiva delle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, attenzione, pianificazione) che si traduce in una perdita dell’autonomia e conseguente compromissione delle attività di vita quotidiana (come cucinare, lavarsi, pagare le bollette…). Il deterioramento cognitivo è la conseguenza di una patologia acquisita, in cui il declino delle funzioni cognitive rappresenta una modificazione rispetto alla condizione precedente della persona.
Per parlare di disturbo neurocognitivo, quindi, la compromissione di una sola funzione cognitiva non basta. Infatti, per quanto in determinate patologie una funzione possa essere più colpita rispetto ad altre (si pensi alla memoria nella malattia di Alzheimer), essa deve essere necessariamente accompagnata da una graduale perdita di altre attività cognitive che prima erano “intatte”.
Conclusa questa premessa, definiamo ora cosa sono la neuropsicologia e la neuropsicologia forense, di cosa si occupano, come si collegano ai disturbi neurocognitivi e cosa hanno in comune le due discipline.
1. COS’E’ LA NEUROPSICOLOGIA?
La neuropsicologia studia i rapporti tra cervello e mente tramite le conseguenze che si verificano in seguito ad una lesione subita.
Per comprendere al meglio l’oggetto di studio della neuropsicologia è utile partire da alcune definizioni:
- distinzione tra cervello e mente;
- definizione di lesione acquisita.
1.1 Distinzione cervello – mente
Sebbene vengano spesso utilizzati come sinonimi nel linguaggio di tutti i giorni, per le neuroscienze “cervello” e “mente” non hanno lo stesso significato.
- Il cervello è l’organo fisico e biologico che si trova all’interno del nostro cranio. È composto da miliardi di cellule chiamate neuroni, che comunicano tra loro tramite segnali elettrici e chimici.
- La mente, invece, è un concetto più astratto e si riferisce a tutti quei processi mentali e alle esperienze soggettive, che sorgono come risultato del funzionamento stesso del cervello. La mente non è un qualcosa di fisico (non sappiamo esattamente dove essa sia collocata nel cervello), ma un prodotto delle attività cerebrali.
1.2 Definizione di lesione acquisita
Una lesione acquisita è una lesione provocata, ad esempio, da una malattia oppure in seguito ad un incidente di varia natura. Una persona, quindi, in seguito alla lesione può “perdere” una funzione che prima era integra.
Esempio: In seguito ad un incidente stradale in cui ho subito un trauma cranico, mi rendo conto che non riesco più a memorizzare delle informazioni come facevo in precedenza. La funzione colpita in questo caso è la memoria.
Quindi, per neuropsicologia si intende lo studio dei rapporti cervello-mente attraverso l’indagine degli effetti provocati da lesioni cerebrali acquisite sui processi cognitivi, emotivi e comportamentali.
La valutazione delle funzioni cognitive avviene attraverso un attento esame o valutazione neuropsicologica, che se ad un primo livello può essere comune a tutti i pazienti, in un secondo momento diventa sempre più specifica e mirata.
Infatti, una volta ottenuto il profilo generale tramite la somministrazione di test detti di screening o I livello, nella seconda fase il professionista che esamina (psicologa/o o personale medico di formazione) sceglierà dei test ad hoc o di II livello per approfondire e comprendere al meglio le fragilità evidenziate della singola persona che si è sottoposta ai test.
Si può immaginare il o la neuropsicologo/a durante la valutazione come un sarto che cuce un vestito su misura, unico per la singola persona.
1.3 La neuropsicologia e i disturbi neurocognitivi
Già dalla definizione di neuropsicologia capiamo che la lesione cerebrale acquisita può essere provocata anche da una malattia e, come riportato precedentemente, un disturbo neurocognitivo è la conseguenza di un deterioramento dovuto ad una patologia.
In altre parole, i disturbi neurocognitivi sono uno tra gli oggetti di indagine della neuropsicologia.
L’esame neuropsicologico ha molteplici finalità e nello specifico, per quanto riguarda l’argomento in questione, può essere uno strumento di aiuto indispensabile per la diagnosi. Ad esempio, in casi di iniziale deterioramento cognitivo, l’unico elemento a disposizione del medico è proprio il risultato della valutazione neuropsicologica, poiché gli esami neuroradiologici come la TC (Tomografia Computerizzata) o la MRI (Risonanza Magnetica) possono non evidenziare anomalie.
La somministrazione testistica (che segue la fase del colloquio e che precede quella della diagnosi), si divide in due parti.
Nella prima vengono utilizzati i test di screening che forniscono punteggi indicativi del grado di competenza cognitiva della persona o paziente (quadro cognitivo globale). Questi test possono essere somministrati nuovamente a distanza di tempo per evidenziare se ci sono delle variazioni del quadro iniziale oppure se la situazione resta stabile.
Gli strumenti di screening più comunemente utilizzati in Italia sono il Mini Mental State Examination (MMSE) oppure il Montreal Cognitive Assessment (MoCA). Entrambe le prove forniscono un punteggio che può essere confrontato con un valore soglia (ottenuto sulla popolazione neuropsicologicamente sana) al di sotto del quale si può ritenere elevata la possibilità che la prestazione sia compromessa (N.B. Il punteggio della persona che si sottopone al test è corretto in base all’età e alla scolarità poiché sono due variabili che influenzano significativamente la prestazione al test).
È necessario chiarire che l’esito più o meno positivo a un test, non indica che l’abilità cognitiva sottostante sia integra o compromessa, ma solo che quella funzione, misurata con quel tipo di prova ed in quella situazione, ha dato un determinato risultato. Un test raramente coinvolge una sola funzione cognitiva e l’esito dipende da più abilità, oltre a quella maggiormente coinvolta o di maggior interesse.
Le ipotesi formulate andranno poi accertate con approfondimenti neuropsicologici specifici. Infatti, una volta ottenuto il quadro globale, si programma una valutazione neuropsicologica di II livello, con test ad hoc più specifici. In questa seconda parte vengono analizzate in maggior dettaglio le funzioni cognitive che sembrano meritare un’ulteriore indagine. Ogni singolo caso va considerato nella sua unicità: in questo modo la valutazione sarà personalizzata e centrata sulla specifica persona.
2. COS’E’ LA NEUROPSICOLOGIA FORENSE?
Abbiamo detto che l’esame neuropsicologico può avere molteplici scopi.
Oltre a quello diagnostico descritto in precedenza, un altro è proprio di natura “legale”. Se ad esempio viene commesso un crimine, un(a) Giudice potrebbe voler sapere se la persona imputata:
- Ha agito con piena coscienza e volontà: capiva perfettamente ciò che stava facendo o quel comportamento potrebbe essere stato causato da un danno cerebrale?
- È in grado di partecipare al processo che la riguarda? Conosce i suoi diritti? Capisce le conseguenze a cui va incontro nel caso in cui dovesse essere dichiarata colpevole? Riesce a collaborare con il suo avvocato per la costruzione della sua difesa? (Fornire l’alibi o prove a favore della sua innocenza?);
- Il suo comportamento può essere nuovamente pericoloso in futuro? (ad esempio, esiste la possibilità che, dopo aver scontato la sua condanna, la persona possa commettere un altro omicidio?).
Altre volte, invece, il Giudice potrebbe avere la necessità di sapere se una persona è capace di prendersi cura dei propri interessi o, al contrario, debba essere tutelata nominando un amministratore di sostegno. D’altra parte, potrebbe anche dover decidere a quale genitore affidare un figlio o una figlia in caso di contesa.
In altri casi ancora, un medico legale potrebbe essere chiamato a stabilire se una persona è idonea a guidare, a possedere armi da fuoco, o se soddisfa i requisiti per ricevere benefici assistenziali.
È proprio qui che entra in gioco la neuropsicologia forense.
In altre parole, la neuropsicologia forense applica le conoscenze e gli strumenti della disciplina neuropsicologica a problemi giuridici. Nello specifico, si propone di stabilire lo stato cognitivo, comportamentale ed emotivo di individui con danni evidenti o presunti al cervello. Gli ambiti di applicazione dell’esame neuropsicologico forense sono molteplici e dipendono dalla domanda che accompagna la richiesta di indagine. Li vediamo schematizzati in Tabella 1.
PER COSA PUO’ ESSERE RICHIESTO L’ESAME NEUROPSICOLOGICO FORENSE? |
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In ambito civile – Valutazione di pazienti con alterazioni tali da causare un disturbo cognitivo e/o comportamentale. – Valutazione delle capacità di agire o, in altre parole, della capacità di compiere atti giuridici validi quali fare un testamento, donare, esprimere un valido consenso per trattamenti sanitari, ecc. – Valutazione della misura di protezione legale più adatta (amministratore di sostegno, inabilitazione e interdizione). |
In ambito penale – Valutazione dell’imputabilità (capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto reato). – Valutazione della pericolosità sociale (valutare il rischio che quella persona possa commettere di nuovo un reato in futuro). – Capacità di stare in giudizio (capacità di capire ciò di cui si è accusati). – Capacità di rendere testimonianza (capacità di fornire dichiarazioni credibili e valide di un fatto). – Capacità della vittima di reato (valutare se la persona che ha subito il reato è in grado di fornire una testimonianza attendibile di quello che è successo). |
In ambito medico-legale, assistenziale e assicurativo – Idoneità alla guida, al porto d’armi e a mansioni lavorative specifiche. – Richiesta di invalidità e/o accompagnamento. |
Tabella 1: Schematizzazione degli ambiti applicativi dell’esame neuropsicologico forense.
2.1 La neuropsicologia forense e i disturbi neurocognitivi
Già da una rapida lettura della Tabella 1, notiamo come i disturbi neurocognitivi possano configurarsi come una condizione tale da incidere, in tutto o in parte, sulle facoltà investigate dalla neuropsicologia forense.
Per fornire una visione generale, sia in materia civile che in materia penale, seppur con connotazioni diverse, viene spesso chiesta all’esperto una valutazione circa le “capacità di agire” dell’individuo (l’essere in grado di esercitare autonomamente i propri diritti e doveri). Si utilizza il plurale perché la capacità in sé presuppone l’integrità e la messa in atto di una vasta famiglia di competenze cognitive, emozionali e sociali a loro volta riassunte nelle locuzioni giuridiche di “capacità di provvedere ai propri interessi” (declinazione di interesse civile), o ancora più in generale “capacità di intendere e di volere” (declinazione di interesse penale).
La persona con disturbo neurocognitivo può mostrare difficoltà in attività che in condizioni ordinarie possono sembrare banali, ma solo perché per chi non convive con questo tipo di condizione solitamente le svolge in modo automatico, senza alcuna sensazione di sforzo cosciente o impegno volontario.
Per capirci meglio, anche se non ce ne accorgiamo, l’azione del vestirsi o meglio scegliere cosa indossare sottende svariate capacità. Per citarne alcune:
- Orientamento: in quale stagione sono? È inverno/fa freddo? È estate/fa caldo? Fuori c’è il sole o piove?
- Pianificazione: se è inverno non posso indossare solo una canottiera, ma devo mettere più indumenti per non soffrire il freddo;
- Organizzazione: devo mettere prima la canottiera, poi la camicia e infine il maglione;
- Flessibilità: se noto che il maglione che ho messo è sporco devo cambiarlo e prenderne un altro pulito che si abbini con il resto degli indumenti che ho scelto;
- Coordinazione motoria: devo eseguire dei movimenti precisi per indossare la canotta, abbottonare la camicia, infilare le gambe nei pantaloni;
- Memoria: dove sono riposti i vestiti che ho intenzione di mettere?
Secondo il mio punto di vista, riflettere su quanto queste attività di base possano essere problematiche è fondamentale per comprendere meglio le implicazioni derivanti da tutte quelle attività che richiedono un grado maggiore di complessità e autonomia.
Pensiamo ad esempio a tutte quelle facoltà coinvolte nel compiere decisioni in ambito sanitario come esprimere il proprio consenso a trattamenti e/o esami medici, provvedere ai propri interessi patrimoniali, compiere un testamento, donare fondi a un’organizzazione benefica, votare, guidare l’auto, detenere un’arma da fuoco.
Le sfaccettature della “capacità di agire” in materia civile sono molteplici e per ognuna potrebbe essere necessaria una consulenza neuropsicologica forense che, è sempre bene ribadire, verrà declinata in riferimento al tipo di quesito posto.
In altre parole, i test per valutare il livello di autonomia di una persona con disturbo neurocognitivo, selezionati per capire se necessita o meno di una figura di tutela legale, saranno diversi da quelli impiegati in una valutazione finalizzata a stabilire se quella persona è cognitivamente idonea a guidare un veicolo.
2.1.1 L’amministratore di sostegno come figura di tutela legale
Approfitterei dell’esempio sopra riportato per approfondire brevemente cosa si intende per figura di tutela legale, essendo una delle richieste più frequenti in ambito civile ed un’opportunità da non sottovalutare.
Quando nell’avanzamento di un disturbo neurocognitivo l’autonomia inizia a venir meno, sono molteplici le circostanze in cui i familiari si trovano a dover richiedere un accertamento forense per valutare se i propri congiunti possano beneficiare di una delle misure di protezione legale. Queste ultime nel nostro paese sono rappresentate dall’inabilitazione, dall’interdizione e dall’Amministratore di Sostegno (AdS).
Nello specifico, per inabilitazione si intende una misura di protezione prevista dal diritto civile italiano, applicata a persone maggiorenni (o minori nell’ultimo anno di età) che a causa di una infermità mentale (non così grave da imporre l’interdizione), abuso di alcol o stupefacenti, prodigalità, ecc. espongono sé stesse o le relative famiglie a gravi pregiudizi economici. L’inabilitazione comporta una parziale incapacità di agire: la persona cioè può compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione (pagare le bollette di luce, acqua e gas, fare la spesa, andare in banca per depositare o prelevare soldi dal proprio conto, ecc.), ma per quelli di straordinaria amministrazione (vendere una casa, comprare una nuova macchina, accettare o rinunciare a un’eredità, ecc.) deve essere assistito da un “curatore”. Non si tratta di una sostituzione totale (come avviene con l’interdizione), ma di un affiancamento per tutelare la persona e il suo patrimonio. Questa misura viene disposta da un Giudice tramite sentenza, su richiesta di determinati soggetti previsti dalla legge (ad es. la stessa persona che viene inabilitata, il coniuge o convivente, i familiari entro il 4° grado, ecc.).
L’interdizione è invece un provvedimento giuridico previsto dal diritto civile italiano che viene adottato nei confronti di persone maggiorenni (o minori emancipati) che si trovano in condizioni di abituale infermità di mente tale da renderle totalmente incapaci di provvedere ai propri interessi. Con l’interdizione, la persona perde la capacità di agire: non può compiere autonomamente atti giuridici, né di ordinaria né di straordinaria amministrazione. In sua vece viene nominato un “tutore” che la rappresenta e si occupa della cura dei suoi interessi patrimoniali e personali.
I presupposti per l’interdizione sono:
- una grave e abituale infermità mentale,
- l’incapacità di provvedere ai propri interessi,
- la necessità di assicurare una protezione adeguata alla persona.
L’interdizione è disposta con sentenza dal tribunale e ha effetto dal giorno della pubblicazione della sentenza stessa. Può essere revocata se vengono meno le condizioni che l’hanno giustificata.
L’entrata in vigore della figura giuridica dell’Amministratore di Sostegno, ha fatto sì che i due strumenti sopra citati vengano però attivati esclusivamente per situazioni eccezionali, marginali.
L’Amministratore di Sostegno ha il compito di affiancare la persona tutelata senza però sostituirsi alla stessa, eccetto in situazioni eccezionali e di urgenza. È il beneficiario a scegliere chi più ritiene adatto a ricoprire questo ruolo: può essere un familiare (un(a )figlio/a, un fratello/sorella, un coniuge), una persona amica o conoscente oppure, nel caso in cui non ci siano persone di fiducia disponibili o ritenute adatte, da un professionista (avvocato, assistente sociale). La nomina effettiva avviene tramite un decreto emesso dal(la) Giudice che, a sostegno della sua decisione, può avvalersi della consulenza neuropsicologica forense.
L’Amministratore di Sostegno può essere nominato anche in previsione di una futura ed eventuale incapacità. La persona interessata ha quindi l’opportunità di individuare qualcuno che in caso di una futura incapacità (ma comunque prevedibile), possa occuparsi della tutela dei suoi interessi, in particolare per quanto concerne il consenso o il rifiuto di trattamenti sanitari (Disposizioni Anticipate di Trattamento o DAT, conosciute anche come Testamento Biologico). È importante sottolineare che questa volontà, espressa tramite atto pubblico o scrittura privata, può essere revocata in qualsiasi momento dal soggetto con le stesse modalità.
Indubbiamente questa legge appare molto più flessibile ed attenta alla libertà individuale della persona, coerentemente con il concetto stesso di “capacità di agire”.
In relazione all’ambito penale vorrei far notare come si effettuino valutazioni di ulteriori sfaccettature della “capacità”, in particolare quelle legate al concetto di responsabilità penale. Sulla base di quanto fino ad ora esposto, penso sia chiaro come un disturbo neurocognitivo potrebbe essere in grado di influire totalmente o parzialmente su tutte le accezioni riportate in Tabella 1 (Ambito penale).
3. LA NEUROPSICOLOGIA CLINICA E LA NEUROPSICOLOGIA FORENSE
Oggi la gran parte dei neuropsicologi e delle neuropsicologhe che operano in campo forense ha una formazione di base “clinica”. È vero che la neuropsicologia forense applica le conoscenze della neuropsicologia, ma è altrettanto vero che il contesto forense è molto diverso da quello clinico. Quindi cosa hanno in comune e cosa distingue la neuropsicologia clinica e la neuropsicologia forense?
3.1 Cosa hanno in comune le due discipline?
Entrambe applicano gli stessi principi e condividono la stessa metodologia di indagine. Per questi aspetti, il ruolo della neuropsicologa che opera nel contesto forense è simile a quello del neuropsicologa clinica: entrambi hanno l’obiettivo di definire il quadro cognitivo e/o comportamentale della persona esaminata.
3.2 In cosa si distinguono le due discipline?
Nel contesto forense, chi richiede la consulenza neuropsicologica non non è quasi mai la persona che si sottopone all’esame, ma una terza figura (giudice, avvocato, medico-legale).
In secondo luogo, lo scopo della valutazione neuropsicologica forense non è solo documentare un’eventuale disfunzione, ma stabilire se tale disfunzione è collegata all’evento oggetto del processo (ci può essere ragione di sospettare che quel comportamento illecito possa essere stato la conseguenza di un danno cerebrale?).
La metodologia utilizzata deve essere specifica ovvero in grado non solo di “inquadrare” la disfunzione ma anche di determinare se quella disfunzione possa essere il risultato di una condizione patologica, psicologica o anche simulata.
La simulazione è una peculiarità del contesto forense che non si riscontra nella pratica clinica. Simulare vuol dire esagerare o fingere dei sintomi per ottenere un vantaggio di diversa natura. Ad esempio, dopo un incidente in auto esagero la mia condizione lamentando problemi di memoria, che in realtà non ho, per ricevere maggiore denaro dall’assicurazione o ancora, fingo di avere una malattia mentale per essere riconosciuta “incapace di intendere e di volere” e avere uno sconto di pena. Nel contesto forense la simulazione può essere efficace per raggiungere degli scopi che non esistono nella pratica clinica: una persona che viene inviata per una consulenza neuropsicologica (dal medico di base o dal medico neurologo) per effettuare una valutazione più approfondita in modo da approfondire le fragilità lamentate che motivo avrebbe di fingere? Che profitto otterrebbe?
4. QUAL È IL LEGAME TRA DISTURBI NEUROCOGNITIVI, NEUROPSICOLOGIA E NEUROPSICOLOGIA FORENSE?
In conclusione, possiamo affermare che i disturbi neurocognitivi rappresentano un tema di studio comune sia per la neuropsicologia clinica che per quella forense.
Entrambe le discipline utilizzano gli stessi principi e metodologie, ma le applicano in contesti distinti e con obiettivi diversi. In riferimento ai disturbi neurocognitivi, così per come li abbiamo trattati in questo articolo, mentre la neuropsicologia clinica ha come scopo l’inquadramento diagnostico, la neuropsicologia forense si propone di valutare se quel disturbo ha una rilevanza dal punto di vista legale.
Dott.ssa Benedetta Leccese, psicologa – iscritta alla Scuola di Psicoterapia ad indirizzo Cognitivo-Comportamentale (STCC). Specializzata in Neuropsicologia Forense e Criminologia Clinica
Per informazioni, contattate la Dott.ssa Leccese alla sua mail cliccando qui.