Quest’anno dedico la giornata mondiale dell’Alzheimer alla battaglia che Wendy Mitchell e tantissimi attivisti con demenza come lei stanno combattendo in tutto il mondo per ottenere servizi adeguati ai loro bisogni reali.
La lettera che vedete qui sotto è stata scritta dalla stessa Wendy un paio di settimane fa. E’ indirizzata alle istituzioni del suo Paese, la Gran Bretagna, e ha come oggetto la richiesta di una sostanziale riforma del sistema socio-assistenziale nazionale. Quello che chiede Wendy in fondo è quello che tutti noi vorremmo se fossimo al suo posto; vale a dire, la garanzia del presupposto che chi ci ha in cura non ci abbandoni al nostro destino come se la nostra vita non avesse più alcun valore.
Il suo è un appello che può benissimo essere inoltrato anche ai nostri responsabili istituzionali, complici di una violazione collettiva dei diritti di oltre un milione di persone con demenza che ogni giorno vengono maltrattati per il solo fatto di aver osato ammalarsi della malattia sbagliata.
La mancanza di farmaci risolutivi non può più essere usata come alibi per negare altre forme di cura e assistenza per affrontare una qualsiasi forma di demenza. Ormai esiste un’abbondanza di evidenze scientifiche che dimostrano quanto un mix integrato e coordinato di educazione alla malattia, interventi psico-sociali, terapie riabilitative, e servizi di supporto e assistenza possa migliorare in maniera sostanziale la qualità della vita di chi riceve la diagnosi e dei suoi familiari. Fare finta che queste evidenze non esistano o non siano sufficienti a giustificare l’attivazione di protocolli post-diagnostici accessibili, coerenti ed efficaci è crudele e profondamente ingiusto.
Per fortuna c’è Wendy e ci sono i suoi amici attivisti a ricordarci il peso delle nostre mancanze… Se mai avremo la fortuna di assistere a un cambiamento positivo in ambito demenze, sarà soprattutto per merito delle loro battaglie. Ne sono certa.
Buon 21 settenmbre,
Eloisa
Una lettera alle persone al potere
A coloro che possono rendere possibile il cambiamento…
Eccomi qui a vivere un nuovo Mese mondiale di Alzheimer da quando ho ricevuto la mia diagnosi 4 anni fa.
Confesso che la parola “demenza” non faceva parte del mio vocabolario prima della diagnosi. Fino ad allora ne sapevo poco, anche perché nella mia famiglia nessuno ne aveva avuto esperienza. Oggi invece mi assorbe ventiquattro ore su ventiquattro.
All’epoca della diagnosi, passavo il tempo a leggere tutto quello che altri avevano scritto sulla loro malattia. Mi colpivano la loro capacità di essere resilienti, il loro attivismo, il loro desiderio di cambiamento.
Ragione per cui adesso mi chiedo: perché mai, a quattro anni di distanza, mi ritrovo a scrivere dell’importanza di cambiare le cose, affrontando gli stessi argomenti che altri hanno scritto prima di me, e con modalità molto simili a quelle che venivano usate già molto tempo prima che fossi diagnosticata?
Se avessi ricevuto una diagnosi di cancro, il telefono avrebbe squillato: qualcuno avrebbe deciso insieme a me un percorso di cura e avrebbe avviato servizi di assistenza per aiutarmi ad affrontare la mia malattia. Perché invece, quando una persona viene diagnosticata di demenza, il telefono rimane in silenzio? Perché quando il medico di turno che ci comunica la diagnosi si sente autorizzato a lasciarci andare come se non ci fosse davvero nient’altro da fare? […]
Solo perché abbiamo la demenza non significa che non abbiamo diritti…
Per tanto tempo le persone con demenza sono state affidate a servizi assistenziali generici perché da sempre sono tutti convinti che rispondano ai nostri bisogni, invece di considerare il fatto che anche noi abbiamo esigenze ben specifiche, bisogni che cambiano da persona a persona. Adesso siamo finalmente in tanti e abbiamo cominciato a farci sentire in pubblico – finalmente la gente si sta rendendo conto che c’è un aspetto molto individuale dei nostri bisogni – non tutti “si adattano” ai servizi che vengono proposti indistintamente.
È quasi troppo tardi per chi come noi sta già vivendo le prime fasi intermedie e finali della malattia. Sembra quasi che ci stiano usando come cavie per cercare di risolvere questo disastro, in modo che le generazioni future possano trarne beneficio. Se tutti quelli che attualmente convivono con una demenza, in qualunque stadio, sono destinati a fare da cavie perché si possa realizzare il cambiamento, allora ben venga – però il cambiamento deve arrivare. Basta con il silenzio, basta con le voci di pochi, basta chiacchiere e buone intenzioni – ora devono esserci azioni.
[…] Le persone che hanno un cancro non vengono sottoposte a trattamenti inappropriati, le persone che hanno avuto un ictus non vengono obbligate a subire percorsi di cura inappropriati… perché, quindi, le persone con demenza devono sottoporsi a una tale sofferenza? Poiché l’innovazione medica in ambito demenze è in ritardo, c’è ancora più bisogno di una trasformazione sociale.Non esistono protocolli medici innovativi da seguire, né abbiamo l’imbarazzo della scelta in ambito farmacologico perché finora la ricerca è stata tristemente sotto-finanziata. Ragione per cui il bisogno di cambiamento sociale è maggiore. Per come la vedo io, questo bisogno dovrebbe indurre automaticamente i medici a promuovere trattamenti non-farmacologici invece di limitarsi a offrire solo quello che il modello medico è in grado di offrire, per poi scaricarci al nostro destino.
Dobbiamo essere realistici ed esaminare in quale modo possiamo finanziare questo enorme bisogno – quali sono le opzioni su cui investire e quali invece sono quelle da scartare. Siamo tutti ben consapevoli che non c’è abbastanza denaro per tutti. […]
Quando mi comunicarono la mia diagnosi, mi sentii fortunata, ero resiliente… sapevo come funzionava il sistema. Altre persone al mio posto si sarebbero rinchiuse in casa in attesa di morire, non sapendo quale direzione prendere o dove cercare aiuto.
Ci sono piccole aree dove è possibile trovare supporto, ospedali e RSA di qualità. Ma perché queste aree sono così piccole? Se c’è qualcosa di cui abbiamo bisogno è la coerenza. E’ vergognoso constatare quanta diversità ci sia nelle cure e nell’assistenza a seconda del luogo in cui viviamo.
Abbandoniamo il modello biomedico di cura e assistenza e concentriamoci invece sul modello sociale che avrebbe un impatto molto maggiore sulle risorse a lungo termine. Troppo spesso i servizi aspettano che ci sia una crisi prima di intervenire, aspettano che le famiglie non ce la facciano più ad andare avanti prima di intervenire. Se le persone vengono aiutate da un supporto di tipo emotivo, finanziario e pratico fin dal momento della diagnosi, sarebbero maggiormente in grado di affrontare la demenza da sole. Non andrebbero dal loro medico di base perché sono depresse – e non mi riferisco solo alle persone con demenza ma a tutta la loro famiglia che non riesce più ad affrontare la malattia.
Se gli operatori delle case di riposo fossero più preparati a comprendere i bisogni delle persone con demenza, si potrebbero evitare tanti ricoveri ospedalieri.
Il nostro sistema sanitario e il sistema socio-assistenziale sono in crisi. Se non prestiamo attenzione adesso e agiamo di conseguenza, la situazione potrà solo peggiorare con l’aumento della popolazione anziana che eserciterà una pressione ancora maggiore sui servizi.
Per fortuna c’è speranza perché in realtà ci sono ancora molti modi per evitare questa crisi – certo, è un compito mastodontico, ma possiamo davvero evitare di affrontarlo? Evitare di pensarci non ci aiuterà ad allontanare la crisi.
Non voglio che le mie figlie si ritrovino ad affrontare il caos dei servizi di cura quando non sarò più in grado di badare a me stessa. Sono sicura che nemmeno voi vorreste che i vostri figli affrontassero una tale sfida.
Saluti da qualcuno che non ha più il tempo dalla sua parte…
Wendy Mitchell
Fonte: Letter to those in power, Which me am I today?, by Wendy Mitchell, 5 settembre 2018