La storia di Lorena Savastano: “Mi rialzo e vado avanti”

Lorena e Alberto

A proposito di persone che fanno la differenza, oggi vi presento Lorena Savastano, moglie di Alberto, ammalato di Alzheimer da una decina d’anni, e caregiver virtuale di centinaia di persone che hanno un familiare con demenza e che ogni giorno interagiscono con lei su facebook.

Come tanti, ho scoperto Lorena guardando il documentario di Marco Toscani “Alzheimer, quelli che restano” (che vedete qui sotto) in cui parla della sua esperienza con la malattia del marito con un candore che buca lo schermo.

Entrambi forlivesi, Lorena e Alberto hanno già condiviso 40 anni di vita, fatti di tanto affetto, complicità, volontariato, viaggi, ma anche sacrifici, solitudine e sofferenza. Prima di ammalarsi, Alberto lavorava come ingegnere per l’Ospedale Morgagni di Forlì e poi per il Sant’Orsola di Bologna. Lorena è invece una ex dipendente provinciale, rimasta vedova poco più che ventenne con una figlia da crescere. Anche Alberto aveva già due figli quando dal precedente matrimonio quando incontrò Lorena. Insieme hanno attraversato mille cerchi di fuoco che avrebbero potuto annientarli. E invece…

Ho voluto intervistare Lorena perché la considero una degna rappresentante del “movimento novilunico della ripartenza dopo la diagnosi”. Quel suo bellissimo sorriso che ruba il cuore, non è un punto di partenza ma è un traguardo a cui Lorena tende ogni giorno – è un nonostante tutti i nonostante.

Buona lettura,

Eloisa

N.B. Il testo integrale dell’intervista lo trovate cliccando qui.

P.S. un grazie speciale al Dott. Ferdinando Schiavo che mi ha messo in contatto con Lorena – come dico sempre, le vie del Dott. Ferdy sono infinite!


Intervista a Lorena Savastano

Ciao Lorena, se dovessi descriverti in poche righe cosa diresti di te?
Quando ero piccola osservavo persone tristi, poco propense alla tenerezza, chiuse. Quando chiedevo il perché… Mi sono sempre detta che mai avrei voluto essere così, che la vita non avrebbe potuto cambiarmi fino al punto di non sorridere. Non avrei mai voluto perdere la tenerezza.
Ora a 73 anni, grazie anche a un percorso difficile di analisi, posso affermare che il mio sorriso, l’attenzione e la mia sensibilità non sono andati perduti – anzi negli anni si sono rafforzati. Non nascondo che, anche dietro un mio sorriso più splendente, c’è sempre un velo di tristezza, ma questo fa parte della mia natura portata alla malinconia.
La voglia del fare e di donarmi mi gratifica, al punto da cancellare la malinconia: mi rialzo e vado avanti.

Nel docufilm di Marco Toscani dici che la malattia di Alberto è iniziata con una depressione maggiore. Come vi siete accorti che la depressione si era trasformata in Alzheimer?
E’ stato un percorso difficile iniziato con piccoli cambiamenti nei suoi atteggiamenti, con lievi distrazioni, piccole perdita di memoria. Uno dei primi campanelli di allarme è suonato una sera a Bologna: eravamo a casa di mia figlia, erano mesi che passavamo lunghi periodi all’Ospedale S. Orsola di Bologna perché avevamo un figlio in affido, Georges, con gravi problemi di salute. All’improvviso, Alberto non sapeva più dove si trovava.
Lo psichiatra che interpellammo all’epoca ci inviò al Centro dei Disturbi Cognitivi e della Memoria di Bologna per fare degli accertamenti. I testi diedero esiti perfetti, ma a quel punto si era insinuato in me il dubbio che stava succedendo qualcosa di molto serio.
Quando Georges venne operato e ritornammo a una vita più casalinga, mi accorsi che Alberto riusciva a fatica a fare i compiti con lui, era provato. Così, organizzai un’altra visita medica a Forlì, spiegando i miei dubbi. I test neuropsicologici erano ancora una volta perfetti, ma la PET confermò la diagnosi di Alzheimer. I miei figli in seguito mi dissero “Tu avevi capito già tutto”. Che magra soddisfazione.

Sono già 18 anni che convivi con i problemi di salute di Alberto – nei primi 8 anni hai affrontato insieme a lui l’impatto di una forte depressione e nei successivi 10 avete affrontato l’evoluzione della malattia di Alzheimer. Sui social hai spesso un atteggiamento positivo alla realtà che state vivendo, ma immagino che non sia stato facile ad accettarla … in fondo quando Alberto si è ammalato eravate entrambi ancora piuttosto giovani: come hai vissuto i primi anni di malattia?
E’ vero, all’epoca della prima diagnosi io avevo 55 anni e Alberto 65… potrei usare solo un aggettivo per descrivere quello che abbiamo vissuto in quel periodo: “DRAMMATICO”. Mi spiego: era nato da 2 anni il mio primo nipote Matteo con una grave malformazione. Oggi Matteo ha 22 anni, non parla e non cammina. E’ un bambino che ci regala meravigliosi sorrisi, ma al momento della nascita è stato difficile, avevo degli attacchi d’ansia che non mi facevano dormire. Ho creduto davvero di non farcela. Ero disperata, scappavo quando vedevo una carrozzina.

In quel periodo, durante una visita omeopatica, il medico consigliò ad Alberto di rivolgersi ad uno psichiatra. Quando me lo riferì, non so dirti il perché ma ho avuto la netta sensazione che quella situazione non si sarebbe risolta e che il percorso sarebbe stato lungo e drammatico. Così, ripensandoci, dalla sera alla mattina, cambiò tutto. Alberto cominciò a vivere prigioniero delle sue paure, muto e con gli occhi pieni di angoscia. Viveva o forse vegetava. E’ seguito un pellegrinaggio da vari psichiatri che ci venivano consigliati man mano, a cui sono seguite altrettante cure – quasi tutte inutili. All’epoca Alberto aveva ancora cantieri aperti, lavori da concludere… eppure, improvvisamente, era come se non avesse mai fatto l’ingegnere.

Eravamo abituati a progettare tante cosa fare, ma improvvisamente tutto era diventato immobile. Vivevamo da poco a Cesenatico, non conoscevo nessuno. Alle 4 del pomeriggio Alberto chiudeva porte e finestre e io rimanevo in casa con un fantasma. All’inizio ero aggressiva anche con lui. Non capivo, non riuscivo a darmi pace, mi rifiutavo di essere associata a qualcosa che mi faceva sentire vecchia. Era in atto una ribellione che mi consumava.
Poi ci fu un tentativo di suicidio da parte di Alberto che l’ha fatto andare in coma per 15 giorni – ma anche di questo preferisco non parlare.
Dopo anni che non parlava, durante un controllo cardiologico, Alberto si decise ad affrontare un intervento al cuore. Tutto questo l’ho vissuto da sola, con un grande senso di impotenza e con la paura di non farcela, anche se piano piano mi stavo abituando alla situazione. Dopo due giorni dall’intervento, improvvisamente Alberto riprese a parlare, forse sotto l’effetto degli stupefacenti. Parlava di tutto, mentre io lo ascoltavo stupita: mio marito, sotto al suo silenzio, era vivo e vegeto! Ma dopo poche settimane ritornò a chiudersi nel suo silenzio, nelle sue paure e nelle sue allucinazioni. La differenza era che adesso avevo la certezza che il marito che conoscevo da sempre esistesse ancora – occorreva aspettare.
In quel periodo iniziai a fare volontariato e piano piano uscii dal mio incubo: mi dividevo fra Forlì, dove andavo a trovare Matteo, il mio ragazzo ribelle, e Cesenatico dove convivevo con i silenzi di Alberto. Per fortuna dopo un po’ le sue paure avevano cominciato a diminuire.
Alla luce di questa lunga battaglia per tenerti stretta la tua vita e quella di Alberto, qual è la molla che ti spinge a reagire e quale invece quella che ti impedisce di andare oltre le difficoltà?
Sono convinta che quello che ci fa morire è il non avere più obiettivi da raggiungere: la depressione – così come l’Alzheimer – ti toglie la possibilità di lavora a un progetto di vita comune. Se non trovi un’alternativa che ti faccia sentire ancora viva e utile, si può soccombere. Io ho reagito facendo l’unica cosa che mi fa stare bene, il volontariato, ma tutto può essere utile – la pittura, la musica, lo studio e così via. Se perseguito con passione, ti aiuta a guardare al futuro oltre alla malattia. Se poi si riesce a trovare un’attività legata in qualche modo a un progetto di vita funziona ancora meglio.

E come ha vissuto Alberto i primi anni di malattia?
Alberto… difficile dire come vive la malattia un malato di depressione. Mio marito è anche un malato particolare che vive un silenzio che nessuno può penetrare, scrutare o scalfire. Ho cercato di convincere Alberto a fare un percorso di supporto psicologico, ma anche in questo caso non ho avuto risposta.
Anche suo padre era laureato in ingegneria; quando si ammalò, Alberto si fece carico anche dei suoi lavori, caricandosi di pesi troppo grandi. Ebbe quindi un primo episodio depressivo e rimase per lungo tempo inattivo. Poi, quando piano piano si sentì meglio, vinse un concorso alla USL di Forlì come ingegnere capo dell’Ospedale.
Quando l’ho conosciuto era pieno di iniziativa, aveva formato un’associazione di ingegneria ospedaliera, organizzava ed era relatore di convegni in tutto il mondo, era diventato un ottimo progettista di ospedali. In quel periodo abbiamo viaggiato tanto, Alberto era felice… ogni giorno mi raccontava tutto quello che faceva. Solo molto tempo dopo mi resi conto che in fondo in quegli anni io ero diventata un po’ la sua psicologa: non faceva nulla senza interpellarmi, anche se poi fece scelte che io non avrei fatto.
Quando poi si è ammalato di nuovo ho riflettuto molto sul fatto che all’epoca anch’io stavo vivendo un periodo difficile e non ero più la sponda su cui poteva appoggiarsi. Anche i medici si stupirono di quanti anni fossero passati dal primo episodio depressivo a quello successivo – in genere i disturbi bipolari sono più frequenti. Non escludo quindi che la nostra relazione abbia giocato un ruolo preventivo molto importante, esattamente come lo gioca adesso che affrontiamo insieme la malattia di Alzheimer.

Cosa ti mette più in difficoltà della malattia di tuo marito oggi?
Dipende molto dal mio stato d’animo. Come sempre, se sono tranquilla e serena, non mi stanca quasi nulla. Non devo perdere di vista che le vittime vere sono i malati. Noi possiamo solo accompagnarli tenendoli per mano.
Comunque il sentirmi chiedere con ossessione che giorno è oggi – una, due, tre venti volte – è difficile da vivere. Devo sempre trovare il modo per distrarlo dalle sue ossessioni – vorrebbe che tutto fosse sempre allineato: sedie, tappeto, porte, piccole briciole che raccoglie per casa… Alla sera, puntuale come un orologio, mi dice: “Cosa devo fare domattina?”. E’ come se fosse un bambino da portare a scuola che cerca con insistenza la mamma e la casa dov’è nato o cresciuto.
Anche quando sono stanca devo essere presente per aiutarlo a essere tranquillo.
Le prime volte che parlava con me e non mi riconosceva andavo in ansia e cercavo di riportarlo alla realtà, provavo un tale dolore che speravo che la confusione passasse subito. Poi ho capito che in questo modo peggioravo la situazione. Adesso abbiamo un telefono in casa con un bottone con scritto “Lorena”; basta schiacciarlo e il telefono si mette a suonare. Alberto lo usa per chiamarmi quando sono in un’altra stanza. Quando lo sento squillare, torno da lui e lo tranquillizzo.
Ora che accetto la sua malattia con più serenità, quando mi chiede “Dov’è mia moglie?” mi è più facile capire che per rassicurarlo basta rispondergli “Sai, Lorena è fuori a fare la spesa, torna presto. Ora ci sono io con te”. Se ribatte “Come lo sai?”, gli rispondo “Lo so perché mi ha telefonato prima di uscire”. Poi provo a distrarlo… per il momento va bene così, poi in seguito si vedrà.

Alcune persone quando guardano la tua testimonianza nel video di Toscani non riescono a relazionarsi con la tua/vostra situazione. Pensano che per te in un certo senso sia stato più facile adattarti a questa realtà perché Alberto è “tranquillo” – non vive i cambiamenti di comportamento più difficili come ansia, agitazione, apatia, ecc. che spesso caratterizzano le demenze. Ma è davvero così?
Dipende cosa si intende per “tranquillo”. Alberto è sicuramente una persona mite, sia per carattere che per educazione. Però è comunque una persona che ha bisogno di relazionarsi con qualcuno in grado di mantenere la calma. Se l’affronto con più durezza, si spazientisce e può anche reagire molto male. Ad ogni modo, non è stato facile capire come affrontare tante difficoltà. Vivevo tutte le sue paure con grande apprensione.
Ho sempre preferito non fare ricorso a cliniche psichiatriche. Mio padre è morto di infarto a 39 anni in una clinica mentre faceva la cura del sonno. La sua morte prematura ha influenzato tutte le mie scelte di vita. Ho anche lavorato in un servizio di igiene mentale – lavoro che mi è servito molto ad affrontare le mie sfide negli anni.
Ma soprattutto, tra me e Alberto c’è un rapporto molto profondo. L’aspetto relazionale per me ha un ruolo importante perché le malattie psichiatriche sono di per sé logoranti: se non si riesce a comprendere che le vere vittime sono i malati, c’è il rischio di ammalarsi in due. Di una cosa sono ormai abbastanza certa: quando l’Alzheimer incombe su una famiglia che ha già molti conflitti viene vissuto in maniera ancora più devastante.

Cosa ti sentiresti di dire a chi non riesce ad accettare la malattia?
Questa è davvero una domanda difficile. Posso parlare solo per me stessa e per le scelte che ho fatto. Per tutto il tempo in cui ho posto resistenza alla malattia, stavamo molto male in due, io e Alberto. Non riuscivo a rendermi conto che non ero io la vittima e sentivo il peso della sua assenza. Improvvisamente mi sono sentita sola e inconsciamente credevo che se Alberto avesse veramente voluto, sarebbe guarito subito, restituendomi alla vita normale. Non volevo prendere in considerazione che la parte più difficile era quella che stava vivendo lui. Non riuscivo a perdonargli che avesse tentato il suicidio, senza lasciarmi neppure un messaggio per spiegarmi il perché. Non capivo perché ci trovavamo agli antipodi – da una parte c’ero io che cercavo di farmi forza di fronte alle difficoltà di salute di nostro nipote Matteo; dall’altra parte c’era invece Alberto, preda dei suoi stessi incubi. Lo vedevo come una persona che non faceva niente per aiutarsi. Mi rifiutavo di credere che la sua malattia fosse grave, come poi invece si è rilevata, una malattia senza ritorno.
Per assurdo la diagnosi di Alzheimer mi ha reso più consapevole. Mi ha aiutato a capire che Alberto è la mia vita, il mio punto fermo; con lui siamo una famiglia. Occuparmi di lui riempie la mia vita.

Cos’altro posso dire per aiutare altri che devono affrontare queste difficoltà? E’ un percorso che ognuno deve costruire da sé per ritrovare la gioia delle piccole e grandi cose – quando il tuo familiare ti riconosce, quando si riesce a farlo sorridere, quando sembra di giocare a braccio di ferro per farlo bere – perché questi malati non vorrebbero mai bere!

C’è qualcosa che faresti di diverso se tornassi indietro nel tuo percorso di cura di Alberto?
Le strade percorribili le ho percorse tutte, anche quelle terapeutiche. Purtroppo non vedo cure valide, né in psichiatria, né in ambito Alzheimer, anche se i due binari spesso si incontrano.
Non è per presunzione, ma credo che se dovessi tornare indietro rifarei le stesse cose. Come ad esempio, prenderei ancora la stessa strada percorsa quando Alberto tentò il suicidio. Il medico che lo aveva in cura consigliò ai nostri figli di ricoverare Alberto in una clinica a Modena. Invece io avrei preferito portarlo a casa e non fargli pesare il gesto, per provare a ricominciare con più calma. Di fatto, una mattina presto, io e Alberto partimmo per Modena per il ricovero. All’arrivo ci trovammo davanti uno stabile ormai fatiscente che ospitava molti malati gravi. Alberto mi guardava smarrito, mi prendeva le mani e mi diceva “Lorena non mi lasciare”. Parlai con una giovane dottoressa che più parlava e meno mi convinceva. Le dissi che avevo deciso di portare a casa Alberto. Lei me lo sconsigliò, mi disse che facevo male… abbiamo firmato e siamo tornati verso Cesenatico, uscendo provai un senso di sollievo e di libertà. Per strada abbiamo chiamato i nostri figli, poi siamo rimasti soli per un po’ di tempo – fino a quando Alberto non è stato meglio.
Non credo che il mio sia “un metodo da esportare” oppure imitare, solo che io sono fatta così. Sicuramente avrei voluto essere aiutata di più, avrei voluto ricevere più solidarietà. La solitudine ti fa soffrire. Ciononostante, ho il coraggio delle mie scelte, le stesse che porto avanti anche oggi, come quella di tenere Alberto vicino a me, anche quando diventa tutto difficile. Mai potrei pensare ad Alberto in una struttura: solo, legato a una sedia o al letto, con il pannolone. Impazzirebbe in poco tempo – e io con lui.

Quest’anno ti sei lanciata in un’impresa bellissima: alla fine di agosto hai organizzato una settimana di vacanza a Cesenatico per una ventina di persone con demenza e i loro familiari. Ho letto sul tuo profilo facebook e sui giornali che siete riusciti a mettere insieme un bel programma di intrattenimento, con tanto di spiaggia-terapia, buoncibo-terapia, musicoterapia e stimolazione cognitiva. Com’è nata l’iniziativa e com’è andata?
La cosa è nata come un gioco: qualche mese fa il Dott. Schiavo ha lanciato un messaggio su facebook chiedendo se qualcuno aveva posto per ospitare una giovane coppia che stava vivendo le difficoltà dell’Alzheimer e che voleva andare in vacanza. Io ho risposto d’istinto invitandoli a casa mia per la prima settimana di settembre perché fino alla fine di Agosto ospitavo mia figlia. Ludovico, il marito della coppia, mi scrisse che non poteva venire per quella data perché agli inizi di settembre doveva tornare al suo lavoro di insegnante. A quel punto l’amico Duilio Vieri mi sollecitò dicendo, “Ma non si riesce proprio a organizzare una vacanza a Cesenatico?”. Lo scorso anno mia cognata aveva scoperto una struttura della Don Bosco a Cesenatico che ha accesso diretto al mare – dall’ascensore si arriva in spiaggia. Mi è sembrata perfetta per ospitare persone con qualche difficoltà a muoversi come lo sono spesso le persone con demenza negli stadi intermedi e avanzati. Da lì è partito tutto, Duilio ha seguito la parte economica e amministrativa per la raccolta e gestione delle adesioni all’iniziativa. Antonella Legato invece si è occupata di promuovere l’idea su facebook. Mentre prendeva forma il progetto, pensando a cosa poteva essere utile per ravvivare le giornate, ho pensato subito alla Dott.ssa Caterina Riva, psicologa ed esperta di stimolazione cognitiva. A questo proposito, ho chiesto un contributo al nostro assessore di Cesenatico, Stefano Tappi, il quale ha mi ha messo in contatto con Stefano Montalti,  Presidente dell’Associazione “Amici di Casa Insieme” per gestire l’erogazione dal punto di vista contabile. All’epoca ero ancora piena di dubbi e invece il presidente Montalti ha creduto molto nel progetto e ha messo a disposizione anche le volontarie della sua associazione Alda, Anna, Antonella e Daniela. Era l’anello mancante al progetto; le cito perché sono state davvero importanti, brave e preparate, piene da carica umana. Non abbiamo fatta troppa pubblicità per il timore che gli iscritti erano troppi non eravamo preparati a gestirli.  Volevamo soprattutto essere di aiuto ai caregiver, sollevandoli da impegni faticosi. E’ stato un progetto piccolo ma significativo che ci ha stimolato a proseguire su questa strada…