“Human Forever”: Il documentario che ci invita a ripensare la cura

copertina documentario Human Forever

L’altra sera abbiamo organizzato per i soci di Novilunio una proiezione online di “Human Forever“, documentario diretto da Jonathan de Jong che racconta la storia di Teun Toebes, giovane studente olandese di infermieristica che a 21 anni ha scelto di vivere per tre anni e mezzo in una RSA non come operatore, ma come coinquilino degli ospiti. Da questa esperienza è nato il libro “Coinquilini” e poi il documentario.

Presentato al vertice del G20 sulla demenza, “Human Forever” è diventato il documentario più visto nella storia dei cinema olandesi. Nasce da un viaggio di ricerca durato quattro anni in 11 Paesi in cui Teun e Jonathan hanno visitato 150 realtà dedicate all’accoglienza delle persone con demenza. Obiettivo del viaggio era la ricerca di risposte su come migliorare la qualità della vita delle persone con demenza.

Con questo documentario, il regista ha voluto distaccarsi dalla narrazione dominante, spesso incentrata sulla perdita, per mostrare che è possibile raccontare l’esperienza delle persone in modo diverso, capace di mettere al centro la speranza e l’umanità di chi affronta questa realtà. Il documentario non si limita a presentare le diverse strutture visitate dalla troupe, ma entra nella quotidianità dei loro ospiti, rivelando cosa accade nella loro vita quotidiana.

È proprio a partire da questa visione che si collocano le riflessioni riportate in questo articolo di Irene Botti, moglie-caregiver e socia facilitatrice di Novilunio, e Simona Ferrari, attivista con diagnosi e Consigliera di Novilunio.

Nelle loro riflessioni emerge un aspetto che il documentario sfiora appena, ma che secondo noi è essenziale per pensare a un cambiamento sostenibile: la demenza colpisce almeno due persone. La persona con diagnosi, che rischia di essere identificata solo in base alla sua condizione e privata della propria umanità. E il familiare che la assiste, il cui impegno cresce progressivamente fino a diventare totalizzante nelle fasi avanzate, con il rischio di assorbire interamente la sua vita.

Irene condivide la necessità del cambio di prospettiva suggerito dal documentario, riconoscendo che l’istituzionalizzazione in strutture residenziali o RSA rappresenta sempre più il futuro inevitabile per le persone più fragili. Tuttavia, per accettare questa prospettiva senza angoscia e senso di ingiustizia, è fondamentale ripensare radicalmente il concetto stesso di ricovero: non più come costrizione o isolamento, ma come comunità accogliente capace di sollevare i familiari dal peso della responsabilità totale, permettendo loro di esprimere il meglio del proprio affetto e della propria vicinanza alle persone ricoverate, in un contesto di serenità ritrovata.

Simona, dal canto suo, porta una prospettiva tanto più preziosa quanto rara: quella di chi vive la demenza in prima persona e allo stesso tempo è caregiver del proprio padre nel suo percorso con l’Alzheimer. Questa duplice esperienza le permette di guardare al film da entrambi i lati della relazione di cura: sa cosa significa interrogarsi sul proprio futuro con la consapevolezza di “non voler gravare sui figli”, e sa anche cosa comporti cercare ogni giorno soluzioni dignitose per un genitore che ha bisogno di assistenza crescente. La sua riflessione non separa queste due prospettive, ma le intreccia, restituendo la complessità emotiva e pratica di una condizione che coinvolge sempre più persone, non solo chi riceve la diagnosi.

Un’ultima cosa: se desiderate organizzare la proiezione di Human Forever nella vostra città, potete contattare Marcello Galetti della Diaconia Valdese a questa mail: mgaletti@diaconiavaldese.org. Ne approfittiamo per ringraziare Marcello per averci dato la possibilità di condividere in streaming il documentario con i nostri soci: è stata per tutti noi un’esperienza di dialogo e confronto che ci ha resi più consapevoli: la strada verso una società più giusta e inclusiva è ancora lunga.

Buona lettura.


di Irene Botti

Ieri, in occasione dello scambio degli auguri per le feste, abbiamo condiviso la proiezione del film “Human Forever”.

A caldo sono stati fatti vari commenti e considerazioni. Io ho riflettuto l’intera notte, nel sonno continuavo a pensare, perché un film non dice mai direttamente tutto, un film suscita, suggerisce, scatena emozioni.

Bene, desidero condividere qui quello che ieri non sono riuscita ad elaborare.

Sicuramente il regista ed il protagonista del documentario non hanno inteso parlare della demenza in se’   e di tutti i problemi ad essa collegati, credo che piuttosto abbiano voluto porre l’attenzione sull’atteggiamento sociale nei confronti della demenza e, aggiungerei, della vecchiaia.

A questo proposito trovo importante fare alcune valutazioni. L’istituto famiglia all’interno della società è indubbiamente cambiato nel corso del tempo. Forse nelle società rurali meno che in quelle industrializzate, nel nord del mondo più che nel sud, ma comunque sono variati i ruoli e gli impegni, le dinamiche e i rapporti tra   i membri. Esistono famiglie “allargate” a causa di divorzi e nuovi matrimoni, esistono famiglie “ristrette” formate da singoli individui che non vivono in coppia e non hanno prole, esistono famiglie omogenitoriali, esistono famiglie divise per motivi di lavoro di studio o di migrazione, coppie costrette a convivere solo per problemi di ristrettezze economiche e altre situazioni complesse che in precedenti periodi storici senz’altro non c’erano.

A questo si aggiungono i rapporti completamente diversi dei figli con i genitori, che non sono più di totale sottomissione ma di relazione e molto spesso di conflitto a causa di scelte di vita diverse, e il ruolo delle donne che non si occupano più solo della cura della famiglia e della casa, ma che sono impegnate in mestieri e professioni e che contribuiscono alla stabilità economica dei nuclei familiari e della società.

In questo panorama complesso e relativamente nuovo, la cura e l’accudimento dei più fragili, malati o anziani, diventa un problema che è urgente affrontare a livello di comunità civile poiché non è più sostenibile dagli individui e dai nuclei familiari, perché il tessuto sociale che nelle famiglie rurali e patriarcali lo sosteneva, è venuto a mancare e, credo proprio non possa più essere ricostituito così come era, visto che culturalmente nessuno più lo accetterebbe.

Quindi il cambio di prospettiva culturale che suggerisce il film non è visto nell’ottica di un ritorno al passato ma forse potrebbe riferirsi anche alle aspettative che ciascuno di noi ha per il proprio futuro che, indubbiamente riflettono pure il modo che abbiamo di affrontare il presente.

In sostanza: quanti di noi che hanno figli pensano di voler gravare su di loro nella vecchiaia e nella malattia? Quanti single possono permettersi di sperare in un sostegno dai familiari, se li hanno, o dai conoscenti? Quanti di noi hanno un rapporto di coppia così saldo e stabile da garantire in futuro un accudimento da parte del coniuge? Il futuro dei più fragili sarà senz’altro l’istituzionalizzazione e prima inizieremo a parlarne e a valutarne ogni possibile declinazione e prima riusciremo ad accettarla.

Questo comporta una presa di responsabilità economica da parte degli stati e della politica in quanto tutti devono avere il diritto e la possibilità di essere protetti ed accompagnati nel modo più dignitoso ed umano possibile negli ultimi periodi della loro vita. L’investimento nella prevenzione e nella costituzione di strutture adeguate ed accessibili a tutti è quindi una priorità, piaccia o no ai nostri governanti.

A questo, come abbiamo ampiamente rilevato nel forum dopo la proiezione, va unito un cambiamento nell’approccio alle cure e all’istituzionalizzazione, con il cuore rivolto all’umanità dei più fragili e alla ricchezza di contenuti e di emozioni che ancora sono in grado di esprimere.

Ma perché questo avvenga mi pare necessario che chi accudisce debba cambiare il suo modo di sentire e pensare il ricovero. Mi spiego meglio: se accetto per me stessa di poter concludere la mia vita in una comunità diversa dalla mia famiglia naturale, ma in cui questa stessa possa entrare per incontrarmi e relazionarsi con affetto con me, senz’altro sarò in grado di immaginare e progettare un luogo accogliente e protettivo, rispettoso dell’individuo e dei suoi bisogni, perché lo penserò a misura della mia umanità.

Ma se concepirò il ricovero come una coazione, come una interruzione dei rapporti familiari e sociali, come un isolamento, allora le strutture saranno sempre pensate e realizzate come tali, perché ciascuno di noi è la società e la società costruirà quello che noi ci aspettiamo di avere.

Come sono cambiate le organizzazioni sociali e familiari così penso debbano cambiare le nostre aspettative riguardo all’accudimento in vecchiaia e in malattia, creando comunità professionalmente capaci di accogliere le fragilità in modo umano e rispettoso, che siano in grado di inglobare le famiglie, laddove siano presenti, e sostenerle aiutandole ad esprimere il meglio del loro affetto poiché libere dalla responsabilità e dalla paura dell’inadeguatezza.

Il mio sogno, per quando sarò anziana o se dovessi ammalarmi e non essere più autosufficiente, è di poter  trovare un posto accogliente, una comunità di persone accudenti e umanamente sensibili che mi permetta di non subire la solitudine e la paura, in cui poter esprimere quella che sono , le mie competenze, la mie esperienza di vita, i miei ideali etici,  che sollevi  mio figlio dal peso dell’angoscia e gli permetta di seguire i suoi affetti e la sua professione, che ci consenta di incontrarci e volerci bene, di trascorrere momenti di serenità insieme.

Anche chi accudisce rischia di ammalarsi e sicuramente invecchierà: quindi ha il diritto ed il dovere di prevenire e di creare le condizioni più favorevoli al suo benessere presente e futuro (buona alimentazione, buone relazioni, movimento, stimoli intellettuali, tempo creativo).

Il coraggio, come dice il film, è nel lasciare un vecchio modo di concepire la cura per inventarne uno nuovo.

E questo inizia da ciascuno di noi.


di Simona Ferrari

Come persona con diagnosi, questo docufilm mi è piaciuto tantissimo, l’ho trovato commovente e sincero. Teun è sicuramente una persona molto sensibile che si preoccupa della dignità delle persone con demenza: gentile e premuroso, ha capito perfettamente, avendo vissuto prima da coinquilino nella struttura, che le persone con demenza hanno bisogno di ascolto, di compagnia, di un abbraccio e di non sentirsi isolate dalla società all’esterno della struttura; di una vita dignitosa, umana e di vivere bene fino alla fine, proprio i valori che ricordiamo sempre in Novilunio!

Teun è un ragazzo coraggioso, simpatico e desideroso di cambiare la mentalità sulla demenza, e mi ha colpito la frase: “adesso sono sano, ma non lo sarò per sempre“.

Il suo lavoro, insieme a quello del regista, è cercare risposte sui diversi modi di considerare la demenza, partendo dalla prima residenza in cui Teun ha vissuto con la nonna, per poi visitare e convivere in tante altre strutture in diversi paesi del mondo: secondo me hanno fatto davvero un capolavoro. È un film che genera tante emozioni, speranza, solidarietà, voglia di vivere e anche angoscia: per esempio, in un villaggio dell’Africa una figlia spiega che deve tenere controllata la mamma perché, se esce di casa, ha paura che i ragazzi del paese le diano fuoco, credendola una strega (che situazione drammatica!).

Invece, in un altro villaggio del Sudafrica, la figlia di un signore afferma di essere serena e fortunata a occuparsi del papà: i suoi fratelli non possono, perché hanno le loro famiglie da seguire, ed il papà comunque ha una vita sociale nella parrocchia, quindi ha una comunità che lo può aiutare (mi ricorda la società italiana degli anni ‘60, poi da lì in poi la società si è trasformata)

Mi sembra di ricordare che in Belgio esiste una struttura all’avanguardia che lascia liberi i propri ospiti di vestire come credono: se vogliono restare in pigiama, lo possono fare; hanno piccoli compiti nella preparazione dei pasti, possono passeggiare nella natura e mi sembra che le persone siano piuttosto soddisfatte e tranquille. Un’altra struttura all’avanguardia è in Norvegia, dove le persone con demenza convivono con persone più giovani e sane, ascoltano musica e passano momenti felici insieme: appunto, si può continuare a vivere bene con la demenza, se si instaura un rapporto di fiducia ed amicizia reciproca.

Questa residenza mi ha fatto un’ottima impressione: se proprio dovessi scegliere di andare in una struttura, vorrei andare anch’io, come dice Irene, in un luogo simile dove posso ancora avere momenti di svago sia con gli altri ospiti che con i miei familiari, e una certa libertà di poter uscire a fare due passi se me la sento fisicamente. Fino ad adesso sinceramente non ho mai pensato seriamente al mio futuro, perché con la diagnosi non mi avevano dato una grande prospettiva di vita; anche io non me la sento di gravare sui miei figli: hanno la loro vita ed è giusto che la vivano senza l’angoscia di doversi occupare di me.

Invece, come caregiver di supporto a mio padre con Alzheimer insieme a mio fratello abbiamo sempre cercato di rimandare l’idea di ricoverarlo in una struttura: l’ultima volta che mio papà è stato ricoverato in ospedale era così disorientato che ha tentato di fuggire e senza volere era diventato molto aggressivo.

Ultimamente abbiamo provato a cercare una struttura per il mese di sollievo, ma molte residenze non ricoverano i pazienti se non in modo definitivo; quindi per adesso abbiamo una signora che ci aiuta con l’igiene una volta al giorno, poi aiutiamo i nostri genitori suddividendoci i compiti, poi si vedrà: viviamo nel presente, giorno per giorno.

Secondo le statistiche, saremo a breve un popolo di anziani, quindi il governo dovrà attivarsi per porre rimedio con nuove strutture… e comunque dovrà cambiare la mentalità riguardo a queste residenze, con le opportune modifiche che garantiscano inclusione e dignità.

Il che mi ricorda il messaggio che abbiamo presentato il 6 ottobre 2025 a Bologna durante la presentazione alla Conferenza di Alzheimer Europe:

“Vogliamo costruire una visione di società veramente inclusiva, in cui la partecipazione attiva non dipende solo dalla solidarietà, ma da infrastrutture che garantiscono pari opportunità di cura, assistenza, lavoro e partecipazione.”