L’Atrofia Corticale Posteriore o PCA

Tracey vive con la diagnosi di atrofia corticale posteriore da quando aveva poco più di 40 anni
Nella foto Tracey Shorthouse, ha una diagnosi di atrofia corticale posteriore. Foto di YoungDementia UK

L’approfondimento di oggi è dedicato a una rara di demenza – l’atrofia corticale posteriore o PCA (la sigla deriva dal termine inglese Posterior Cortical Atrophy). Si tratta di una forma di disturbo neurocognitivo che causa un progressivo deterioramento nelle zone posteriori del cervello. La PCA colpisce soprattutto persone con un’età media che varia dai 50 ai 60 anni circa, tuttavia la malattia può emergere anche in età più avanzate.

Prima di descriverne le caratteristiche principali, abbiamo pensato di proporre la testimonianza di Tracey (che vedete nella foto in intestazione), ex infermiera inglese, che convive con questa diagnosi dal 2015. All’epoca della diagnosi aveva poco più di 40 anni. Grazie al sostegno di gruppi di supporto locali e associazioni come Young Dementia UK (impegnata in varie forme di sostegno per persone con demenze a esordio precoce), a distanza di 5 anni Tracey continua a godere di uno stile di vita attivo pur vivendo da sola. Nonostante le difficoltà causate dalla sua malattia, le sue giornate sono infatti ricche di relazioni, impegni in ambito sociale e tante altre cose che la aiutano ad andare avanti con fiducia.

Chiudiamo ringraziando Omar Ferro, che ha tradotto i testi per questo articolo, e la stessa Tracey, insieme all’associazione Young Dementia UK, che ci hanno permesso di ri-pubblicare la testimonianza sul nostro blog.

La STORIA di Tracey

Il mio nome è Tracey e ho 46 anni. Mi hanno diagnosticato una forma a esordio precoce di malattia di Alzheimer e di un’altra forma di demenza chiamata atrofia corticale posteriore.

Dopo una lunga battaglia in cui ho dovuto dimostrare agli altri che c’era qualcosa che non andava, ho ricevuto la diagnosi nel 2015. Nel 2014 ho cominciato a cadere spesso; penso di essere caduta circa 30 volte quell’anno. Ne ho parlato con molte persone tuttavia, poiché sono sempre stata prona a incidenti di questo tipo, tutti pensavano che ero semplicemente diventata più goffa del solito. Per lo stesso motivo anch’io per un po’ non ci ho più pensato.

Verso la fine del 2014 ho cominciato a dimenticare come si scrivevano alcune parole e alcuni numeri. A quel punto ho iniziato un po’ a preoccuparmi. Come infermiera territoriale ero tenuta a conservare traccia di tutte le visite che facevo ai miei pazienti durante la giornata. Poiché le informazioni da segnare sui miei moduli di lavoro erano prevalentemente numeriche (data e ora), mi resi conto di impiegare molto più tempo del solito perché non ricordavo bene come si scrivessero i numeri. Mentre ero con un collega, mi capitò anche di dimenticare come eseguire una procedura medica che conoscevo bene. Tuttavia, anche se fino ad allora non avevo mai dimenticato nulla di così importante, attribuii queste mie mancanze lavorative allo stress.

Non sapere cosa sta succedendo

Nel 2015 caddi tre volte: in gennaio, febbraio e marzo. Quando caddi la terza volta, in marzo, non riuscivo più a rialzarmi. Non ricordo bene cosa sia successo, ma ricordo che qualcuno mi prestò aiuto e propose di chiamare l’ambulanza. Io però decisi di non chiamare nessuno e tornai al lavoro. Più tardi, sempre in quella giornata, non ricordavo più di essere caduta. Nel mese di maggio di quello stesso anno, feci diverse visite in ospedale per verificare altri sintomi che erano emersi nel frattempo: sensazioni di formicolio, difficoltà a parlare e a camminare, cadute e perdite di memoria. Pensavo di avere la sclerosi multipla. All’ospedale pensavano invece avessi avuto un ictus. Vista la sovrapposizione dei sintomi, il mio medico invece pensava avessi un tumore cerebrale.

Feci una TAC e una risonanza magnetica che però non evidenziarono esiti di nessun tipo. Feci gli esami del sangue ma anch’essi non suggerirono nulla. Mi rivolsi a un neurologo, il quale disse che non era convinto di quale fosse il mio problema – pensava si trattasse di un’emicrania atipica. Mi prescrisse dei farmaci e mi disse che i sintomi potevano dipendere dallo stress e, forse, rappresentavano l’inizio di un quadro di depressione. Gli chiesi se la mia memoria poteva tornare come prima. Non ricevetti alcuna risposta.

L’invio a un centro diagnostico

Tornai al lavoro e una collega cominciò a insegnarmi ad utilizzare un nuovo dispositivo medico. Ho sempre imparato in fretta, e ho sempre avuto una memoria fotografica che mi permetteva di ricordarmi di qualsiasi cosa dopo averla vista una sola volta. Dopo una settimana di spiegazioni, ancora non riuscivo a memorizzarne le procedure per utilizzare il nuovo apparecchio. La mia collega disse: “C’è qualcosa che non va”. Ne parlai con il mio titolare e il mio medico di base. Entrambi credevano fosse colpa dello stress, ma il mio titolare mi suggerì di andare in un centro diagnostico per le demenze per fare altri approfondimenti e test. Il mio medico invece non fu di nessun aiuto. Mi inviò a un altro medico che mi prescrisse una visita specialistica a un centro diagnostico demenze. La prima volta che feci il test della memoria andò male e così lo rifeci un paio di mesi dopo.

Nell’ottobre del 2015, il medico specialista del centro diagnostico mi disse che pensava si trattasse di Alzheimer, ma preferiva sottopormi ad altri esami specialistici per escludere ogni altra ipotesi. Nel dicembre del 2015 ricevetti la diagnosi finale: la SPECT (tomografia ad emissione di fotone singolo, una tecnica di visualizzazione cerebrale) mostrava un deterioramento nella parte posteriore e nell’emisfero destro del cervello, compatibili con l’ipotesi di Alzheimer precoce e con un quadro di atrofia corticale posteriore.

Il sollievo di dare un nome alle difficoltà

Se devo dirla tutta, mi sono sentita sollevata nell’apprendere la diagnosi. Credo sia sempre meglio sapere le cose invece di non saperle. Si pensa sempre allo scenario più disastroso quando si ha una condizione medica invalidante, ma quando si vive da soli bisogna rimanere positivi e adattarsi alle novità, anche se difficili. Non lascerò che la demenza mi abbatta proprio ora. Ho detto allo specialista del mio centro diagnostico che voglio vivere per almeno altri 20-30 anni prima di dare completamente i numeri. Il più delle volte dimentico di avere la demenza; me ne ricordo solo quando sono stanca. Il cervello deve lavorare con il doppio delle forze rispetto ad un cervello normale e per questo si stanca prima.

Dico sempre a tutti quelli che incontro di non arrendersi mai. Il cervello ha bisogno di essere stimolato, perciò frequento diversi gruppi, con i miei amici e con la mia famiglia, mi cimento in giochi da tavolo e preparo torte. Scrivo anche delle poesie e tengo aggiornato il mio blog [ndt. su facebook, “I’m still me”, ovvero “sono ancora io”] che in qualche modo è diventato il mio diario quotidiano. Sono andata in pensione nel maggio del 2016 e qualche tempo prima ho smesso di guidare. Ora amo la mia vita.

Come vivo la vita con positività

Ci sono quattro regole generali che cerco di rispettare:

  • imparare ad adattarmi;
  • non stressarmi inutilmente per cose che non posso controllare;
  • se ho una giornata no, c’è sempre domani – e domani andrà meglio;
  • mantenere sempre il senso dell’umorismo: è fondamentale.

Quando lavoravo come infermiera ero abituata a vedere pazienti che si lasciavano andare, soprattutto dopo diagnosi difficili da digerire. Solitamente, dopo questa arresa morivano. La vita è fatta per essere vissuta al massimo delle proprie abilità e non bisogna arrendersi mai. A volte anche per me è difficile combattere, mi stanco di impegnarmi così tanto ogni giorno, ma ho paura di lasciarmi andare ed è questo che mi aiuta ad andare avanti.

Ho perso degli amici in seguito alla diagnosi, ma le persone giuste sono invece rimaste vicino. Nel frattempo ne ho conosciuto molte altre che sono adorabili.

Tracey vive a Folkestone, nel Kent, in Inghilterra. Potete leggere la sua storia nel suo blog.

Il testo in lingua originale di questa testimonianza è reperibile qui

In questo video Tracey racconta come vive con la sua diagnosi di atrofia corticale posteriore e come ha scelto di approcciarsi alla malattia giorno dopo giorno. Il video è in lingua inglese ma si possono impostare i sottotitoli lingua italianaQui potete leggere le istruzioni per attivarli.

Cos'è l'atrofia corticale posteriore?

atrofia corticale posteriore descrizione

L’atrofia corticale posteriore – conosciuta anche con il nome di Sindrome di Benson – è una rara malattia neurodegenerativa responsabile di un deterioramento progressivo nelle zone posteriori del cervello.

Prima di parlare della malattia, è necessario fare chiarezza su alcune funzioni svolte dalle aree corticali posteriori del nostro cervello associate all’atrofia corticale posteriore: queste regioni sono deputate principalmente all’analisi e al processo delle informazioni relative a ciò che vediamo e a come lo vediamo. Il cervello umano, nel corso della sua evoluzione, ha dedicato una larga parte della propria corteccia al senso della vista, essendo un’abilità fondamentale nel nostro vivere quotidiano. Il processo che ci permette di vedere è riassumibile in questo modo: noi non vediamo con gli occhi, ma vediamo con il cervello. Il cervello si serve infatti delle informazioni che arrivano attraverso gli occhi per costruirsi una determinata immagine di ciò che lo circonda. Questa immagine è suscettibile di cambiamenti, sia per problemi legati alle informazioni in entrata (problematiche puramente visive), che per come vengono elaborate queste stesse informazioni.

L’atrofia corticale posteriore può quindi alterare non solo la capacità di vedere ma anche tutte le abilità collegate ad essa che permettono di funzionare nella vita quotidiana. Può anche causare deficit cognitivi collegati al deterioramento progressivo di zone più anteriori del cervello.

I sintomi visivi e visuo-spaziali più frequenti

Tra i sintomi più comuni che riguardano le capacità visive e visuo-spaziali nella PCA troviamo:

  • visione sfocata;
  • difficoltà a leggere e scrivere;
  • difficoltà nel compilare documenti;
  • difficoltà nel vedere gli oggetti di fronte a sé;
  • difficoltà nel percepire le distanze;
  • difficoltà nel riconoscere gli oggetti
  • difficoltà nel percepire più oggetti simultaneamente;
  • difficoltà nel riconoscere le proprie dita;
  • difficoltà nel riconoscere i numeri di una tastiera;
  • difficoltà nel percepire la profondità degli spazi (es. facendo le scale);
  • difficoltà nel percepire il contrasto di colori;
  • difficoltà nel percepire le ombre;
  • difficoltà nel percepire luci troppo intense e cambi di luce negli ambienti;
  • difficoltà nella guida;
  • disorientamento;
  • allucinazioni visive.

In questo video molto esplicativo dell’Alzheimer’s Society UK, vengono descritti i problemi visivi più frequenti e come sono vissuti dalle persone che ricevono questa diagnosi. Anche questo video è (purtroppo) in inglese, ma è possibile impostare i sottotitoli in italiano come spiegato sopra.

Sintomi cognitivi e psicologici

Alcune persone con PCA possono manifestare anche cambiamenti a livello cognitivo; tuttavia questi tendono a emergere nelle fasi più tardive della malattia. Il deterioramento neurologico della PCA di solito comincia nelle zone posteriori e prosegue verso le zone più anteriori del cervello – dalla nuca alla fronte – intaccando zone cerebrali che controllano la memoria, le capacità di utilizzare oggetti (legata alla capacità di riconoscerli), la navigazione visuo-spaziale nell’ambiente, la capacità di fare calcoli matematici e, seppur limitatamente, le funzioni esecutive (es. la pianificazione di una sequenza di azioni e l’organizzazione).

L’impatto dell’atrofia corticale posteriore, così come di tutte le altre forme di demenza, può generare vissuti di ansia, di angoscia e di paura che contribuiscono a compromettere il benessere e l’autonomia delle persone fin dalle fase iniziali della malattia.

A tal fine riportiamo qui sotto la video-testimonianza di una figlia che spiega l’esperienza di sua madre con la PCA. Nel video la figlia descrive l’insorgere dei sintomi e il processo che ha portato alla diagnosi, enfatizzando quanto sia cambiata la quotidianità di tutta la famiglia in seguito alla diagnosi. Il video è già sottotitolato in italiano.

La diagnosi di atrofia corticale posteriore

Poiché la malattia tende a manifestarsi in modo insolito e variabile e l’età di esordio è precoce, molte persone ricevono una prima diagnosi sbagliata. Pensando che si tratti di un problema di vista e occhi (invece di un disturbo neurologico), spesso si rivolgono inizialmente a un oculista, un oftalmologo o un optometrista senza riuscire a venirne a capo. In questo articolo è possibile trovare dei chiarimenti relativi alle competenze e alle differenze di queste figure professionali.

Un altro fatto che rende l’iter diagnostico particolarmente arduo è che al momento non esistono criteri diagnostici standard e test specifici per la PCA. Questa forma di demenza di solito viene diagnosticata attraverso una diagnosi differenziale presso un centro diagnostico per le demenze che esclude altre malattie come possono essere un tumore cerebrale, un ictus o un’infezione cerebrale. La diagnosi viene ottenuta somministrando test per le abilità cognitive (valutazione neuropsicologica), esami strumentali quali risonanza magnetica dell’encefalo (RM) o tomografia computerizzata (TC o TAC), esami del sangue e test specialistici per la vista.

Trattamenti e risorse per affrontare la malattia

Al momento, non esistono cure risolutrici per l’atrofia corticale posteriore. Tuttavia, è stata dimostrata l’utilità di alcuni farmaci per la gestione dei suoi sintomi.

Ad esempio, gli inibitori della colinesterasi, usati anche per la malattia di Alzheimer, vengono spesso prescritti per migliorare il livello di vigilanza e le abilità cognitive. Tuttavia, questi farmaci riducono l’impatto dei sintomi ma non li risolvono.

Le persone con PCA solitamente preservano un buon livello di consapevolezza sia della malattia che del suo impatto sulla loro autonomia e benessere nella vita di tutti i giorni. Convivere con queste difficoltà può causare anche sintomi depressivi, irritabilità, senso di frustrazione e una perdita della sicurezza di sé. Per ridurre questi rischi e coltivare invece una salute mentale resiliente, può essere di aiuto ricorrere a interventi psicoterapeutici e farmaci antidepressivi.  Molti esperti  incoraggiano anche a mantenere le proprie relazioni sociali e investire il più possibile in strumenti compensativi e altre risorse che permettono di continuare a vivere la propria quotidianità. 

Ad esempio, alcuni ausili visivi creati ad hoc per supportare le persone che hanno deficit nella sfera visiva possono essere utili per le persone con PCA. Questi strumenti possono essere sveglie o orologi da polso, smartphone con display semplificati, utensili culinari intelligenti (es. un sensore all’interno di una tazza che suona quando essa è mezza piena) e anche ebook informativi dedicati alle disabilità visive.

Esistono anche altre forme di supporto che possono aiutare a limitare o gestire meglio l’impatto dei sintomi. Ad esempio:

  • gruppi di supporto socio-riabilitativo e di auto mutuo aiuto (novilunio sta raccogliendo adesioni per un nuovo gruppo online in partenza nel 2021);
  • partecipazione in attività interessanti e stimolanti compatibili con le disabilità visive causate dalla malattia.
  • attività fisica (mai sottovalutare il potere di una camminata);
  • esercizi per tenere allenate le abilità cognitive, anche con applicazioni per smartphone;
  • interventi di terapia occupazionale a supporto della propria autonomia e qualità della vita;
  • supporto psicologico e neuropsicologico per adattarsi all’impatto dei sintomi.