E’ sempre un enorme piacere riportare buone notizie in questo blog. Nelle ultime settimane ne ho scovate ben due che restituiscono un po’ di speranza e senso a chi sta invecchiando e ha paura di ammalarsi di demenza.
La prima notizia viene da Pistoia, o meglio a riportarla è stato Enrico Mossello, un ricercatore dell’Università di Firenze nel suo intervento durante il convegno nazionale sui centri diurni tenutosi il 15 e 16 maggio scorsi. Secondo Mossello alcuni recentissimi studi condotti in Gran Bretagna, Stati Uniti e Svezia hanno rilevato che negli ultimi anni la percentuale di ultraottantenni che soffrono di demenza si è ridotta. In particolare, gli studi dimostrano che gli 80enni di oggi invecchiano meglio, sia fisicamente che mentalmente, e quindi sono meno esposti al rischio di declino cognitivo. Questo è un dato importante perché gli 80anni in ambito medico sono considerati il “giro di boa” nelle forme più comuni di demenza, in quanto rischio di ammalarsi aumenta notevolmente, passando da una media di 1 persona ogni 14 dopo i 65 anni a 1 persona ogni 4-6 dopo gli 80 anni.
Ciò significa che, nonostante il numero di anziani negli ultimi anni sia notevolmente aumentato in tutto il mondo, in paesi come Gran Bretagna e Svezia, e in qualche modo anche Stati Uniti, che da diverso tempo hanno adottato programmi nazionali di prevenzione alla demenza, l’invecchiamento della popolazione non è stato proporzionale all’ondata di nuovi casi diagnosticati. Anzi, a quanto pare gli ultraottantenni con demenza sono addirittura diminuiti.
Secondo Mosello, “il motivo ricorrente lo troviamo in uno studio danese: i novantenni di oggi sono significativamente più autonomi e meno compromessi dal punto di vista cognitivo rispetto a quelli di 20 anni fa“. Il che significa che oggi non solo si vive più a lungo, ma si invecchia anche molto meglio perché ci si prende maggior cura dei fattori di rischio, quali ad esempio ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, diabete, inattività fisica e isolamento sociale. Curandosi meglio e magari “giocando di anticipo”, il cervello si ammala meno rispetto alle generazioni precedenti.
Come osserva la professoressa Michelle C. Carlson, coordinatrice del progetto, “questo programma rimuove le ragnatele dal cervello ed in effetti la nostra ricerca lo dimostra. Aiutando gli altri, i partecipanti sono stati utili anche a se stessi e ai loro neuroni ritardandone l’invecchiamento ed in alcuni casi addirittura fermandolo o invertendolo in parte”.
I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni analizzando l’evoluzione di un campione di 111 uomini e donne: una parte coinvolta in Experience corps, l’altra lasciata alle normali attività quotidiane. Tutti sono stati sottoposti a test di memoria e a risonanza magnetica cerebrale prima dello studio e dopo 12 e 24 mesi. I soggetti della ricerca erano tutti in buona salute, avevano in media 67,2 anni, erano in prevalenza afro-americani e venivano dai quartieri più poveri, avendo in alcuni casi anche un’istruzione universitaria. A livello cognitivo, mentre l’aumento annuo medio di atrofia cerebrale negli adulti con più di 65 anni oscilla da 0,8% al 2%, negli uomini arruolati nell’Experience corps tale aumento si è invece attestato fra lo 0,7% e l’1,6% in due anni. Per le donne i risultati sono stati simili, benché meno significativi.
Nel commentare i risultati della ricerca, il professor Masotti ha osservato che quanto emerge “è una nuova prova di quanto sosteniamo da tempo. Il peggior nemico dell’anziano è l’isolamento, la perdita di ruolo. Da ricerche come queste si possono solo trarre utili suggerimenti per ripensare anche il nostro stato sociale”.
Fonti: FirenzeToday; Gonews.it; ToscanaNews24.