In questi giorni sto leggendo un libro straordinario, Alzheimer’s from the inside out, scritto dal Dr. Richard Taylor, uno psicologo americano che dal 2004 convive con la malattia di Alzheimer e che da anni si batte per i diritti delle persone con demenza. Oltre al libro di cui sopra, il Dr. Taylor ha scritto altri libri, ha un blog tutto suo ed è uno dei fondatori dell’associazione Dementia Alliance International e del sito Dementia Mentors.
Quello che più preme al Dr. Taylor è condividere con gli altri la sua esperienza della malattia e dimostrare che le persone colpite da questa malattia come noi hanno bisogno di vivere una vita dignitosa, attiva e ricca di significato. Con il suo attivismo il Dr. Taylor incoraggia i milioni di persone in tutto il mondo a diventare ambasciatori di se stessi, a parlare di cosa significa veramente avere un declino cognitivo e combattere insieme a lui gli stereotipi e le discriminazioni vissuti ogni giorno dalle persone con demenza.
Nei suoi discorsi e scritti spesso il Dr. Taylor parla della necessità di “umanizzare le cure per la demenza,” di sviluppare cioè un approccio di caregiving che restituisca umanità, sia a chi riceve e sia a chi dona le cure. Anche affrontando una malattia tanto complessa come la demenza, osserva il Dr. Taylor nel suo blog, “è fondamentale mantenere sempre un senso profondo di se stessi e di amore per la propria vita”. Questo è un messaggio che vale tanto per chi è malato quanto per chi è chiamato ad assistere.
Convivere con un deficit cognitivo che progressivamente distrugge la maggior parte degli elementi che costituiscono per ognuno di noi le basi della dignità umana è un’esperienza devastante. Ciononostante, afferma il Dr. Taylor, anche se la malattia ha cambiato l’individuo fino anche a stravolgerne la personalità o le capacità cognitive, è fondamentale rifiutare lo stereotipo della persona danneggiata, dell’essere umano incompleto, invisibile al mondo e che ha perso la battaglia contro la vita stessa prima ancora di morire.
Nel suo capitolo “Hello? I’m still here!” (Hey? Sono ancora qui!), il Dr. Taylor racconta con brutale onestà quello che lo stigma della malattia significa per lui e ci incoraggia tutti a rivedere le nostri pregiudizi e la nostra mancanza di empatia:
Sono diventato profondamente sensibile alla tipica risposta stereotipata che ricevo da alcune persone non appena scoprono che ho l’Alzheimer. Spostano il loro sguardo e attenzione verso chiunque mi sia accanto. E’ come se il venire a conoscenza della malattia mi rendesse invisibile… Questo accade con medici, commessi di negozio, parrucchieri, addetti ai reparti frutta e verdura, addetti alla riparazione degli elettrodomestici, e molti altri….
Mi sto facendo tagliare i capelli e nel corso della conversazione la parrucchiera mi dice che suo padre ha appena ricevuto la diagnosi di Alzheimer. Le rispondo, “Anch’io ho avuto la stessa diagnosi”. La parrucchiera si reca allora nella sala di aspetto e chiede a mio fratello di venire nell’altra stanza insieme a me per dirle se il taglio di capelli che mi ha fatto va bene.
Sono al supermercato con mia moglie e sto scegliendo alcune mele… L’addetto del reparto frutta e verdura si avvicina a noi, sente la parola “Alzheimer”, e si mette tra me e le mele che sto scegliendo e chiede a mia moglie se può selezionarle lui per lei.
Nelle conversazioni, “io” divento “lui”. Sono assente! La gente tende a parlare più forte o più piano, come se fossi sordo o stessi morendo… Non è necessario semplificare il modo in cui parlate per farvi capire. Non è necessario che mi facciate dei disegnetti per bambini…
Dovete però chiedermi se capisco. Guardatemi negli occhi. Assicuratevi che sto prestando attenzione a quello che state per dire… Se vi chiedete se capisco o no, provate a coinvolgermi nella conversazione. Se ho problemi a capire, usate esempi e paragoni che possono essere per me familiari…
Dovete ascoltarmi – non perché voi possiate capirmi, ma perché io possa capire voi.
A volte capisco e altre volte no. A volte vi dirò quando non capisco e altre volte non lo farò. Non so perché mi imbarazza quando gli altri si comportano in maniera diversa con me…
Chiamatemi per nome nelle conversazioni; mi fa sentire più coinvolto. Scrutate il mio volto per capire se sto capendo. A volte non parlo, ma la mia comunicazione non verbale urla. Includete il più possibile riferimenti al passato nelle nostre conversazioni. Non sono sicuro del presente, e sono incerto rispetto al futuro, per cui parlare di cose che ricordo è rassicurante.
Guardatemi sempre negli occhi quando parlate con me. Poiché numerose persone mi hanno ignorato o non mi hanno più prestato attenzione quando hanno saputo che ho l’Alzheimer, sono estremamente conscio e consapevole di come la gente mi guarda e parla con me.
A volte io stesso faccio fatica a ritrovarmi nella persona che ero prima dell’Alzheimer.
In Italia purtroppo è ancora raro leggere testimonianze da parte di persone con demenza. Eppure credo che è proprio ascoltando le loro storie e il loro punto di vista possiamo davvero capire come aiutarli a convivere con la malattia con maggiore serenità e resilienza.
Nei prossimi mesi spero di riuscire a colmare questo vuoto – almeno nel nostro piccolo – raccogliendo le storie delle persone che seguiamo come associazione. Se qualcuno dei lettori di questo blog vuole condividere la propria esperienza o le proprie osservazioni, può lasciare un commento qui sotto o scriverci a info@novilunio.net.
Alla prossima!
Eloisa