Oggi riprendiamo il modello di supporto al benessere delle persone con demenza di Allen Power. Ne abbiamo già parlato un paio di volte in questo spazio, in occasione dei workshop che il Dott. Power ha fatto qui in Italia, l’anno scorso a Bassano del Grappa (VI), quest’anno a Modena.
Ritorniamo sull’argomento perché quello di Power è un modello nato sia dalla sua esperienza personale come medico geriatra e sia dall’esperienza delle persone, pazienti di Allen e advocate, che convivono con questa condizione. Tra gli attivisti con cui Power ha lavorato ci sono diversi volti noti anche a Novilunio: c’è innanzitutto Richard Taylor con cui ha organizzato i suoi primi workshop e poi ci sono Kate Swaffer, Chrystine Bryden e tanti altre persone che negli ultimi vent’anni si sono impegnati ad abbattere i muri dello stigma e dei pregiudizi che condizionano il nostro modo di pensare, agire e organizzare i servizi a supporto di chi affronta queste diagnosi.
Il modello di Allen Power ci ricorda che ognuno di noi aspira a sentirsi al sicuro, compreso, connesso con gli altri, utile e coinvolto in attività o progetti che ci fanno sentire bene e parte di qualcosa di più grande. Ed è da proprio dal concetto di benessere che Power ci chiede di ripartire: il nostro stare bene è strettamente collegato alla nostra capacità di soddisfare i nostri bisogni. Quando conviviamo con una condizione che limita questa capacità, abbiamo bisogno degli altri per continuare a vivere meglio possibile, giorno dopo giorno.
Quello di Power è un appello a tutti: le persone con demenza possono e vogliono vivere bene; quando ci riescono è anche perché c’è qualcuno che le ha aiutate a sentirsi comprese, connesse con gli altri e valorizzate, al di là della loro diagnosi.
Anche Simona Ferrari, la nostra volontaria e “inviata speciale”, pensa che il modello di Power sia un prezioso strumento per comprendere meglio come prendersi cura di qualcuno che come lei e i suoi genitori affrontano ogni giorno l’impatto di un deterioramento neurocognitivo. E’ grazie a Simona se oggi possiamo pubblicare questo articolo che ha scritto per noi tratto dalla presentazione di Power a cui ha assistito a Modena lo scorso settembre. Alla fine dell’articolo troverete un riquadro in cui abbiamo approfondito i concetti di piramide del benessere a cui si ispira il modello del Dott. Power.
Se volete saperne di più sull’argomento, vi invitiamo a riprendere l’articolo che abbiamo tradotto qualche anno fa della gerontologa Sonya Barsness. Ma soprattutto, per chi sa un po’ di inglese, vi raccomandiamo i libri di Allen Power:
- Dementia beyond drugs (2016)
- Dementia beyond disease (2014)
Buona lettura!
Le mie riflessioni sulla presentazione di Allen Power “La demenza oltre la malattia”
A cura di Simona Ferrari
Il 28 settembre scorso ho avuto l’onore e la fortuna di ascoltare il convegno con Allen Power a Modena intitolato “La demenza oltre la malattia” organizzato dall’UOC Disturbi Cognitivi e Demenze della AUSL di Modena.
Allen Power è un medico internista canadese che si è specializzato in geriatria e da anni sta studiando come ridurre l’utilizzo di psicofarmaci nelle persone con demenza. Il suo approccio è basato sull’esperienza sul campo che ha maturato in tanti anni di pratica medica, osservando soprattutto le persone che vivono all’interno di RSA.
Quello di Allen Power è un punto di vista secondo me molto interessante e molto empatico nei confronti delle persone con demenza. Ecco perché ci tengo a parlarne qui, riportando i punti che ho trovato più importanti dal punto di vista di chi convive con una diagnosi.
Il Dott. Power sta cercando di trasmettere il messaggio che È IMPORTANTE CAMBIARE PROSPETTIVA SUL MODO IN CUI GUARDIAMO LA DEMENZA.
Power non smentisce l’esistenza di una malattia o danno cerebrale. Dice però che è importante imparare a guardare la condizione attraverso occhi diversi, ALLARGANDO IL MODO IN CUI GUARDIAMO OLTRE I NOSTRI PRECONCETTI, REGOLE E APPROCCI.
Sottolinea l’importanza sia di imparare da chi convive con questa condizione sia di provare ad APPREZZARE IL MODO UNICO DI PERCEPIRE IL MONDO DI OGNI PERSONA.
L’approccio alla demenza di Power si basa sul coinvolgimento della persona con demenza, sul prestare attenzione ai suoi cambiamenti dovuti alla sua diagnosi e su un certo scetticismo nei confronti dell’impiego dei farmaci antipsicotici nella demenza.
Il suo messaggio chiave è di mettere da parte sistemi e regole che riducono la demenza allo stato patologico e allo stadio della malattia.
È invece importante adottare un approccio globale che considera la demenza “un cambiamento nel modo in cui le persone fanno esperienza del mondo intorno a loro”. Questa è la definizione di Power che secondo me è molto vera: i cinque sensi cambiano tantissimo, purtroppo; oltre alle difficoltà di portare a termine le azioni… quando si riesce a finire qualche compito è già un successo! A me piace molto la frase “sono sempre io, in un’altra versione“!
Power non considera la demenza come malattia mortale ma come cambiamento di capacità – un nuovo sentiero per continuare la propria crescita (questo punto mi piace davvero, mi ricorda molto gli scout!).
L’approccio di Power è basato anche sull’accettazione di una nuova normalità (per esperienza posso dire che è difficile all’inizio ma piano piano ci si adegua).
È un approccio che sfida molte delle modalità con le quali ci si prende tradizionalmente cura delle persone con demenza e che richiede un cambio radicale delle competenze.
Nella sua presentazione Power ha spiegato come ci comportiamo diversamente quando consideriamo il comportamento di una persona senza demenza rispetto a quando ci relazioniamo con una persona con demenza. Cambia proprio il modo in cui le persone con demenza vengono considerate rispetto a chi non convive con questa condizione.
Ad esempio: molti di noi sono abituati a parlare in pubblico camminando avanti ed indietro. Per chi non ha una demenza è considerato un comportamento normale. Se però a farlo è una persona con demenza, questo comportamento può essere considerato un comportamento che denota agitazione patologica o un tentativo di fuga.
Oppure: è normale irritarsi o diventare irrequieti quando siamo costretti a vivere a RITMI CHE NON CI APPARTENGONO (magari a causa di qualcuno che ci fa fretta o ci costringe a fare cose che non abbiamo voglia di fare). Ma, se è una persona con demenza a irritarsi o diventare irrequieta, può essere accusata di avere un comportamento “sfidante” o soffrire di “sindrome del tramonto”.
Fare acquisti in modo compulsivo può essere un modo per scaricare l’ansia. Se però si tratta di una persona con demenza, questa viene considerata come una persona che ha un disturbo da accumulo.
A nessuno piace essere tiranneggiato o toccato da persone sconosciute; quando ci succede spesso ci arrabbiamo perché ci sentiamo violati. Se succede a una persona con demenza, magari quando viene costretta a fare qualcosa che la mette in imbarazzo, viene accusata di essere oppositiva o aggressiva.
Il dottor Power ha inoltre spiegato che quando si è arrivati a definire i “disturbi del comportamento” o “BPSD” (Behavioral and Psychological Symptoms in Dementia), c’è stata un’interpretazione sbagliata delle psicosi, dei deliri e delle allucinazioni che ha portato all’approvazione inappropriata di psicofarmaci per le demenze in molti Paesi. I BPSD attribuiscono al danno cerebrale degli aspetti che non riguardano la malattia in sé ma le modalità di esprimersi o comunicare delle persone con demenza.
Il concetto di BPSD non considera i contesti relazionali, ambientali e storici/biografici delle persone – aspetti questi che invece sono molto importanti per il loro benessere.
Power invita le persone a chiedersi: è davvero la demenza la causa principale di tutte le azioni di una persona che ha questa diagnosi?
Da un lato, è innegabile che i cambiamenti del cervello causati da una demenza sono reali e possono causare difficoltà con:
– il recupero delle informazioni e dei ricordi
– la comunicazione verbale
– l’abilità di effettuare le azioni e gestire i “filtri sociali”
– le funzioni esecutive
Dall’altro lato però, esiste tutta una serie di adattamenti che la persona mette in atto quando convive con la sua malattia. Sono cambiamenti che riguardano:
– il suo modo di comunicare;
– il suo modo di agire;
– il suo modo di interpretare e risolvere i problemi (ad esempio, bisogna adeguarsi a ritmi diversi e più lenti)
– il suo modo di rispondere a molti aspetti della vita quotidiana in relazione all’ambiente.
Alcuni esempi delle restrizioni basate sui BPSD:
- È normale voler uscire di casa; ciò che non è normale è rinchiudere le persone in un luogo e non lasciarle uscire quando ne sentono il bisogno.
- Opporre resistenza nel farsi svestire da un estraneo non è anormale. Quando ne parlava, Power ha fatto l’esempio della doccia: se abbiamo sempre fatto la doccia da soli è normale sentirsi in imbarazzo ed opporsi se una persona ti vuole aiutare (qui mi sono ricordata di tutti i tentativi che io stessa devo mettere in pratica con il mio papà quando è ora di fare la famigerata doccia!).
- Volere fare le cose a proprio modo, al proprio ritmo non è anormale;
- Non è anormale arrabbiarsi perché la persona con cui ci stiamo relazionando cerca di correggerci, cambiare discorso o mentirti.
Il vero problema, dice Power, è l’idea stessa che le persone abbiano bisogno di una pillola per stare meglio.
Ad esempio, Power ha parlato di un signore che viveva in una RSA e che era particolarmente agitato, tranne quando usciva a guardare le mucche nel recinto vicino. Solo allora si tranquillizza. Parlando con i suoi familiari, il personale ha scoperto che il suo lavoro era stato proprio quello di controllare le mucche. Hanno quindi inserito questa “terapia” per farlo stare più tranquillo senza utilizzare ulteriori farmaci.
A volte gli interventi non farmacologici che vengono applicati nelle RSA non funzionano perché non sono pensati per l’individuo (secondo i suoi bisogni specifici o storia di vita), oppure sono attività che non hanno un vero significato o attinenza ad aree del benessere, oppure ancora vengono “somministrate” come se fossero “dosi di farmaci”.
Secondo il dottor Power ha più senso concentrarsi sul miglioramento del benessere partendo dai punti di forza e dalle risorse residue della persona, in modo che ogni attività risponda ai suoi bisogni concreti e fornisca gli strumenti pratici per affrontare le difficoltà quotidiane che impediscono di soddisfarli. Le attività devono cioè rispondere alla complessità dei singoli individui e le loro situazioni di vita specifiche e non a obiettivi astratti e generali applicabili a tutti, a prescindere dalle persone a cui sono rivolti.
Power insiste inoltre su un punto fondamentale di questo approccio: il benessere da raggiungere non dipende solo dallo stadio della malattia, dall’ambiente di vita, dalle circostanze personali o dalla propria storia di vita, ma dipende anche dalla riserva di energie e capacità di adattamento che ognuno di noi ha di fronte alla malattia e alle avversità.
L’approccio orientato al benessere è utile anche per i caregiver perché di solito non vengono educati a pensare in questi termini quando si parla di demenza. Non sanno cioè su quali bisogni devono concentrarsi per garantire il benessere dei loro cari. Anche loro, pensano in termini di patologia e stadi della malattia, invece che in termini di bisogni di identità, connessione, significato, sicurezza, gioia, crescita, autonomia.
Questo approccio mi ricorda anche il metodo di Laura Gitlin (di cui ho scritto l’anno scorso) che punta sulla terapia su misura del paziente per garantire il massimo livello di tranquillità e soddisfazione!
Senza volerlo mi rendo conto adesso di averlo messo in pratica qualche anno fa quando aiutavo una signora bipolare che era molto sola: le ho chiesto che cosa le sarebbe piaciuto fare e così siamo andate in piscina, al cinema, in pizzeria e siamo diventate grandi amiche!
La piramide del benessere
La piramide dei bisogni presentata da Power è stata in parte ispirata dal lavoro di un gruppo di ricercatori nordamericani, alcuni dei quali appartenente al progetto Eden Alternative mirato al miglioramento del benessere delle persone anziane ricoverate in strutture residenziali. Il loro lavoro, intitolato “Wellbeing: beyond quality of life, the metamorphosis of elder care” individua i vari aspetti del benessere associando per ognuno i valori, diritti e principi su cui concentrarsi:
- Identità: sentirsi bene nella propria individualità; sentirsi riconosciuti e apprezzati dagli altri in quanto persone a tutto tondo (storia personale, preferenze, desideri, vulnerabilità, punti di forza…)
- Connessione: sentirsi vivi e connessi agli altri; sentire di appartenere a un gruppo o comunità; sentirsi coinvolti; sentirsi connessi al proprio passato, presente e futuro; sentirsi connessi a un luogo e/o alla natura.
- Sicurezza: Sentirsi liberi dai dubbi, dall’ansia, dalla paura; sicurezza in se stessi, negli altri, negli ambienti di vita o in altri contesti; godere di privacy, dignità e rispetto.
- Autonomia: Libertà; auto-determinazione; capacità di agire senza subite pressioni dagli altri; possibilità di scegliere.
- Significato: Senso; aspetti o cose che sono importanti, significative, e più in generale che stanno a cuore; speranza; scopo; riflessione; spiritualità.
- Crescita: Sviluppo; arricchimento; espansione; evoluzione.
- Gioia: Felicità; piacere; soddisfazione; contentezza; divertimento.
Se ci fate caso, questi aspetti non sono importanti solo per chi convive con una demenza ma lo sono per tutti. Da un punto di vista “operativo”, richiamano sia la piramide dei bisogni di Maslow e sia il modello di cura centrato sulla persona di Tom Kitwood. In altre parole è un approccio che mira ad andare oltre il “problema” specifico, la “malattia” o il “disagio” e invita ad adottare una visione complessiva dell’esperienza che sta attraversando una determinata persona, in quel specifico momento e luogo.
Secondo questo approccio, ogni situazione o difficoltà dipende da numerosi fattori interni ed esterni alla persona che le sta vivendo. Riguardano cioè sia le risorse interne e le vulnerabilità dell’individuo (es. aspetti emotivi, esperienze passate, capacità di coping e adattamento, atteggiamento nei confronti di quella situazione, persona, oggetto, ecc.) e sia i contesti, le relazioni e le opportunità di aiuto esterno a chi sta affrontando quella determinata esperienza.
Cercare di applicare un approccio generalizzato alle persone con demenza (o one size fits all/a taglia unica, come direbbero gli anglosassoni), o attribuire ogni loro reazione o comportamento alla malattia, non solo non ha senso, ma le fa sentire ancora più sole, impotenti e invisibili.