Anche stavolta la conferenza annuale di Alzheimer Europe che si è svolta settimana scorsa a Barcellona ci ha regalato un bel po’ di spunti utili e incoraggiamento ad andare avanti con fiducia. Non sembra ma, in un ambito che tende a scoraggiare anche i più ottimisti tra noi, una sana iniezione di speranza concreta non fa mai male.
Anche se in Italia ancora non ce ne siamo resi conto, con l’approvazione del Piano Globale sulla Demenza dell’anno scorso, e quindi con il riconoscimento da parte dall’Organizzazione della Sanità delle persone con demenza come soggetti aventi diritto a tutto ciò che viene riconosciuto dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili, siamo ufficialmente entrati in un’altra era. Vale a dire, l’era in cui la demenza è considerata una disabilità e che in quanto tal le persone che si ammalano godono della protezione dei loro diritti in tutti gli ambiti di vita (vedi nella Convenzione art. 9 sull’accessibilità, art. 19 sul diritto alla vita indipendente, art. 25 sul diritto alla qualità delle cure, art. 26 sul diritto all’abilitazione e riabilitazione, art. 28 sul diritto a standard di vita adeguati, art. 29 sul diritto alla partecipazione alla vita politica e pubblica). Per approfondimenti sul tema, consiglio di leggere il report di Alzheimer Europe “Dementia as a disability? Implications for ethics, policy and practice”.
Il nuovo approccio alla demenza trascende quindi il modello biomedico (focalizzato esclusivamente su patologia e sintomi), né si limita a replicare il modello sociale tradizionale (perché non sufficientemente sensibile alle risorse e circostanze individuali), ma mira invece a riconquistare valore e dignità dei singoli sostenendo i loro diritti umani in quanto cittadini con pari diritti, doveri e responsabilità.
L’approccio basato sui diritti è uno strumento prezioso dal punto di vista legale e civico perché permette di delineare meglio i confini della discriminazione attuale alle spese delle persone con demenza in tutti gli ambiti di vita quotidiana, a partire dalle loro comunità per arrivare ai luoghi di lavoro e di cura. Ma soprattutto è un approccio che esige l’inclusione in tutti i tavoli di lavoro o discussione dei diretti interessati – cioè le persone con demenza – in linea con il principio del movimento globale della disabilità, “Niente su di noi senza di noi”.
E’ prezioso non solo per una questione di garanzia di diritti e di equità delle voci in causa, ma lo è anche perché sta diventando sempre più evidente che il modo in cui ci prendiamo cura di chi si ammala (senza capire veramente cosa significa per loro vivere demenza “dal di dentro”, come direbbe Richard Taylor) ha un costo altissimo in termini di sofferenza evitabile. Come osserva la Prof.ssa Suzanne Cahill nel suo libro “Human Rights and Dementia”:
“Nonostante la demenza privi le persone della loro memoria e delle loro capacità cognitive, non li priva della loro dignità e del loro status di individui. E’ invece la società e chi tra noi viene considerato sano e cognitivamente integro a erigere barriere disabilitanti che rendono la vita più difficile per l’individuo e i suoi famigliari. Con il nostro approccio nichilistico alla malattia, gli ambienti di vita mal progettati e le nostre politiche basate sui deficit, spesso ci ritroviamo a produrre pratiche di cura opprimenti e centrate solo sulle mansioni , e in questo modo contribuiamo involontariamente a un eccesso di disabilità per le persone con difficoltà cognitive. Tuttavia, rimuovendo queste inutili barriere possiamo aiutare la persone che convivono con una demenza a funzionare meglio e più a lungo”.
Il punto di partenza del cambiamento è quindi quello di abbandonare l’attuale cultura riduzionista e svalutante dell’esperienza di malattia, per sostituirla con un nuovo orizzonte che mette al centro valori, risorse e ruoli residui o intrinsechi nella nostra umanità. Questa è una scelta consapevole che ognuno di noi può fare ogni giorno nel proprio piccolo – con o senza l’avallo delle nostre istituzioni.
A riprova di questo cambiamento epocale, la conferenza di Barcellona ha proposto una serie di workshop dedicati all’approccio basato sui diritti umani a partire dalle buone pratiche di inclusione e coinvolgimento delle persone con demenza (come co-designer, co-ricercatori o co-sviluppatori di progetto) in vari ambiti di ricerca clinica e sociale e nella progettazione di studi, servizi e strumenti per convivere meglio possibile con l’impatto della malattia come cittadini a pieno titolo. A proposito di coinvolgimento delle persone con demenza in veste di co-ricercatori, vi consiglio di dare un’occhiata al progetto UpStream dedicato a rendere più “dementia-friendly” i trasporti e la mobilità in Scozia e realizzato dal nostro amico Andy Hyde, anche lui vincitore insieme a noi del premio EFID 2017.
Si tratta di piccoli ma importanti passi nella giusta direzione che fanno ben sperare per le persone che stanno tenendo duro a fronte della loro diagnosi o che si ammaleranno nei prossimi mesi o anni. Non è facile cambiare un’intera cultura, forzandone gli orizzonti o i confini di competenza, ma non è nemmeno impossibile. Le testimonianze che abbiamo ascoltato a Barcellona sono un bellissimo segnale che il cambiamento è già in corso – da semino è già diventato un piccolo arbusto.
La promozione dell’approccio basato sui diritti umani attraverso il coinvolgimento attivo delle persone con demenza
di Helen Rochford Brennan
Vi lascio con la traduzione del discorso presentato in plenaria da Helen Rochford-Brennan, attuale Presidente del Gruppo di Lavoro Europeo delle Persone con Demenza (European Working Group of People with Dementia) fondato dalla stessa federazione Alzheimer Europe. Helen è stata diagnosticata di Alzheimer nel 2012 quando aveva solo 61 anni. Da allora è diventata un’instancabile attivista sul fronte dei diritti delle persone con demenza. I suoi mantra sono inclusione, equità e giustizia.
Quando dico che non c’è nulla che possa sostituire il punto di vista dei diretti interessati, ecco a cosa mi riferisco:
Buongiorno a tutti.
Credo profondamente nei diritti umani delle persone con demenza. Penso sia uno degli aspetti più urgenti della nostra epoca e tendo a perdere la pazienza quando vedo la mancanza di azioni al riguardo.
Alle persone che convivono con una demenza possono essere negati diritti umani a partire dal momento in cui ricevono la loro diagnosi. Non siamo sempre rispettati o informati. Nel convivere con la nostra malattia navighiamo in un mare di sistemi e strutture che non sono centrati sulla persona o non sono fondati sui diritti. Di conseguenza, sia intenzionalmente che per omissione, i nostri diritti fondamentali vengono negati.
Per contrastare questa situazione, le persone con demenza devono essere direttamente coinvolte in tutti gli aspetti della malattia. Dalla ricerca all’assistenza sanitaria, dagli aspetti legislativi alla sensibilizzazione – l’esperienza vissuta dalle persone con demenza deve essere valorizzata e deve avere il potere di esercitare un’influenza.
Non sono un’esperta legale o di diritti umani, ma sono un’esperta della mia esperienza. Sono un’esperta dei diritti umani di Helen Rochford-Brennan.
Negli scorsi quattro anni, in qualità di membro e presidente dell’European Working Group of People with Dementia, ho conosciuto persone con demenza provenienti da tutta Europa.
Le ho ascoltate e sono stata testimone di quanto sia difficile per loro essere cittadini attivi e combattere contro la percezione della società che li continua a considerarli come persone incapaci di decidere e disporre delle loro vite.
Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato quanto sia ormai ampiamente accertato che alle persone con demenza vengano spesso negati i loro diritti umani. A questo proposito l’OMS ha dichiarato che “da sola la legge non è sufficiente per garantire la protezione dei loro diritti”.
Questo è purtroppo molto vero, perché anche se da un lato possiamo essere lieti della ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, e del fatto che tutti gli Stati membri europei abbiano firmato e ratificato tale convenzione, dall’altro lato ciò non significa che i diritti di ogni persona che convive con una demenza vengano rispettati in Europa.
Questa mattina voglio iniziare a parlare di violazione di diritti umani, quale ad esempio la mancanza di diritti sanciti dalla legge riguardanti l’assistenza domiciliare, la prescrizione inappropriata di psicofarmaci e l’assenza di supporto per partecipare attivamente nelle nostre comunità – ovvero di sostenere e promuovere la nostra salute sociale e il nostro benessere.
Assistenza domiciliare
Vivo nella cittadina di Tubercurry, Co, Sligo in Irlanda con mio marito Sean. Ho amici e famigliari che vivono vicino a me. Coltivo rose nel mio giardino, vado a teatro e mi piace andare a camminare per la campagna di Sligo.
Recentemente ho aperto un account in Instagram e ho notato che la funzione “Trova la tua tribù” va molto di moda in questo periodo. Mi sento fortunata ad avere già una tribù tutta mia!
Voglio vivere a casa mia, circondata dalla mia tribù. Non voglio vivere in una residenza per anziani. I villaggi per la demenza stanno diventando sempre più diffusi e, nonostante comprenda il loro valore, non voglio traslocare in un villaggio “speciale” quando vivo già in un villaggio vero.
Mi chiedo perché non si parli mai di raggruppare tutte le persone che hanno il diabete per ricoverarle in massa in villaggi speciali, ma è invece perfettamente accettabile istituzionalizzare le persone con demenza in un apposito villaggio?
La Convenzione sui Diritti Umani dice che ho il diritto fondamentale alla mia libertà, ma in Irlanda non ho il diritto all’assistenza domiciliare che mi permetta di esercitare tale libertà. La nostra società sembra credere che il mio ricovero in una struttura sia la pratica migliore nel caso la mia malattia progredisca.
Molte strutture e villaggi per la demenza sono centrati sulla persona, sono accoglienti e offrono un’assistenza di qualità. Questa non è una critica a questo tipo di strutture, bensì è una critica di un sistema che non mi dà altre possibilità di scelta.
Non voglio che lo Stato adotti un approccio paternalistico e usi il mio bisogno di sicurezza per giustificare il mio ricovero in un’istituzione.
Prescrizioni di psicofarmaci
Lo Stato usa anche il mio bisogno di sicurezza e quello delle persone che mi circondano per giustificare la prescrizione di psicofarmaci.
Le persone con demenza sono regolarmente etichettate come “difficili”, “aggressive” e “poco collaborative”. Ma queste sono reazioni umane normali. Chi vive tutta la vita di buon umore? Vi capita mai di essere frustrati o arrabbiati? Se mi rispondete di no, non vi crederò!
Perché le emozioni delle persone con demenza devono essere trattate farmacologicamente?
Perché tutta la mia vita deve essere vista solo attraverso le lenti della medicina? Se vado a fare una passeggiata, vuol dire che sto “vagabondando”. E se mi sto occupando delle mie rose devo considerarlo terapia?
Sono sconvolta dal fatto che nonostante tutte le avvertenze di cui sentiamo spesso parlare sugli effetti collaterali degli psicofarmaci e le raccomandazioni di concentrarsi sugli interventi non-farmacologici, lo studio di Janus et al del 2016 ha concluso che gli antipsicotici e gli antidepressivi sono ancora comunemente prescritti nelle residenze per anziani.
Sembra che la tendenza prevalente sia quella di affidarsi ai farmaci per modificare il comportamento delle persone con demenza, ma allo stesso tempo non ci sia abbastanza interesse a comprendere l’origine del problema – i loro bisogni non soddisfatti.
Considero la contenzione chimica un abuso dei diritti umani delle persone con demenza.
Salute sociale e benessere
Mi sottopongo regolarmente a controlli medici con una varietà di professionisti sanitari. Mi controllano la pressione del sangue, la vista, l’udito – cose queste che sono semplici da misurare ma che sulla base dei loro esiti viene definito il mio stato di salute.
Tuttavia, se i miei medici adottassero un approccio basato sui diritti. dovrebbero misurare anche i miei livelli di empowerment, benessere e indipendenza. Perché anche questi fattori sono ugualmente importanti. Credo infatti che questi bisogni, più complessi, siano un riflesso della mia salute e del mio benessere a tutto tondo.
Kitwood scrisse del concetto di personhood negli anni ’90. E’ un concetto oggi ampiamente accettato e utilizzato come punto di riferimento nei percorsi di cura delle demenze. Kitwood incluse tra i bisogni anche quelli riguardanti l’inclusione, l’attaccamento, il comfort, l’occupazione.
Tuttavia, a distanza di 20 anni, quei bisogni non vengono ancora misurati adeguatamente. Di sicuro nessun medico finora mi ha mai chiesto nulla in merio al mio livello di comfort o di attaccamento, oppure riguardo a ciò che mi fa stare bene dal punto di vista occupazionale nella mia vita.
I diritti umani sono una progressione naturale dal lavoro di Kitwood e trovo sia incredibilmente frustrante che come comunità non siamo ancora in grado di essere qui e dire che chi convive con una demenza in Europa viene pienamente rispettato in quanto persona e riceve cure adeguate in quanto tale.
La salute sociale si preoccupa delle relazioni, non è una variabile che riguarda l’individuo in sé. Per avere una buona salute sociale devo essere in grado di interagire nella mia comunità. Il mio diritto a vivere nella mia comunità viene violato perché non mi viene riconosciuto il diritto all’assistenza domiciliare nel mio Paese.
Il mio diritto a partecipare alle attività culturali e sociali è violato perché non tutte le istituzioni culturali sono consapevoli delle difficoltà sensoriali che una demenza può causare.
Se fossi su una carrozzina, non considerereste irragionevole la mia richiesta di una rampa per salire le scale. Invece, per molte persone con demenza che vivono in Europa, non esiste ancora una “rampa” per compensare le loro difficoltà cognitive.
Tutti noi che viviamo con una demenza abbiamo bisogno di una “rampa cognitiva”, metaforicamente parlando. E tuttavia, quello di cui ho bisogno io è diverso da quello di cui hanno bisogno altre persone che vivono con una demenza. Affinché i nostri diritti non vengano violati abbiamo bisogno di un supporto personalizzato.
Perciò, come cambiamo tutto questo? Ci vorrebbero 5 ore per spiegarlo!
Ma oggi voglio parlare di come si può iniziare questo cambiamento – valorizzando l’esperienza di vita di chi convive con una demenza.
Come accennato prima, le persone con demenza devono essere coinvolte attivamente in tutti gli aspetti della malattia. Tuttavia, il loro coinvolgimento non deve essere di facciata, ma deve avvenire con supporto adeguato e in modo che venga riconosciuto il loro valore in quanto “esperti per esperienza”.
Un approccio non di facciata
Parlare di esperienza vissuta è qualcosa che va molto di moda in questo periodo, fa tendenza. Tutti vogliono una persona con demenza nel loro consiglio di amministrazione o nei comitati di lavoro o nei gruppi di ricerca. I ricercatori spesso ricevono finanziamenti quando si consultano con le persone con demenza.
Tuttavia questo tipo di coinvolgimento ha un senso solo se la persona con demenza ha voce in capitolo, e se gode di un potere decisionale condiviso con il resto dei partecipanti al progetto.
I ricercatori devono comprendere che non voglio semplicemente rispondere alle loro domande, ma voglio invece essere messa nella condizione di definire le domande incluse nella ricerca. Vogliamo essere inclusi in progetti di co-design e non ricevere inviti all’ultimo minuto. E se prendiamo parte a un comitato direttivo o un gruppo di ricerca vogliamo essere messi a conoscenza dei risultati raggiunti.
Troppo spesso alle persone con demenza viene chiesta la loro opinione o viene chiesto di condividere la loro esperienza di vita senza avere la più pallida idea di dove vanno a finire queste informazioni. Cosa succede dopo? Il progetto ha avuto un qualche tipo di impatto sulle politiche pubbliche o sui percorsi di cura? C’è uno step successivo?
Vorrei anche che fosse chiaro che le persone con demenza hanno una diversità di prospettive. Assicuratevi di non chiedere l’opinione solo a una persona con demenza, giusto per mettere la spunta sull’apposita casella. L’Europa ha bisogno di considerare ed estendere la diversità di prospettive delle persone con demenza che vivono in tutta l’Unione.
La Helen del 2018 potrebbe avere bisogni e promuovere la causa di aspetti completamente diversi dalla Helen del 2020. Esistono molte forme di demenza e le persone che convivono con questa malattia hanno età molto diverse e vivono le più disparate circostanze socio economiche e abitative.
Supporto appropriato
Sono commossa dal numero di inviti che ricevo costantemente. Sono un orgoglioso membro di molte commissioni, gruppi di lavoro, consigli di amministrazione e gruppi di esperti.
Ciononostante, non tutti coloro che mi hanno invitato comprendono chiaramente come supportarmi in maniera adeguata. Le persone con demenza hanno bisogno di supporto per diffondere relazioni e documenti di ricerca. Abbiamo bisogno di tempo e spazio per lavorare e non dobbiamo essere messi sotto pressione. Abbiamo bisogno di una persona designata con avere un contatto regolare. Abbiamo bisogno di avere l’opportunità di fare domande e discutere il materiale informalmente prima di andare a un incontro.
Abbiamo inoltre bisogno di supporto pratico per viaggiare e per le spese che sosteniamo. Tuttavia, sia chiaro, non abbiamo bisogno di paternalismo ma di un approccio che sia inclusivo e trasparente. Il fatto di aver bisogno di supporto non ci deve squalificare né come persone né come partecipanti.
Valorizzare gli esperti per esperienza
Come ho accennato all’inizio di questo discorso, sono un’esperta della mia stessa esperienza, un’esperta dei diritti umani di Helen Rochford Brennan. Ho avuto il privilegio quest’anno di essere coinvolta in due progetti che valorizzano la mia esperienza di vita.
ERC Voices
Ho partecipato al progetto ERC Voices sull’auto-determinazione. Il progetto è finalizzato a cambiare la legge in relazione al diritto alla capacità legale delle persone con disabilità.
Sono speranzosa perché la legge in Irlanda sta cambiando e le persone con demenza al momento hanno una presunta capacità di decidere. Non devo provare la mia capacità, l’onere della prova è su chiunque affermi che non ho la capacità per decidere autonomamente.
Questo tipo di disposizioni, insieme alla Convenzione ONU sul diritto delle persone con disabilità, mi garantisce il quadro giuridico di riferimento per sostenere i miei diritti. Ma in realtà, combatto per i miei diritti ogni giorno – ed è una lotta che mi sfinisce. Ho il diritto di viaggiare ma alcuni gestori dei mezzi di trasporto presumono che sono un soggetto troppo a rischio oppure non mi forniscono il supporto necessario. Nel ERC Voices Book parlo delle mie inabilità negli spostamenti come qualcosa che ha un forte impatto sulla mia vita, sul mio benessere e sui miei diritti umani.
In questo libro, l’esperienza vissuta occupava la maggior parte dei contenuti, era il punto di partenza ma anche l’ossatura del progetto. Le esperienze dei partecipanti sono state trasformate in questioni legali. Non sono state un aggiunta ma erano una parte fondamentale del progetto.
Il libro di Suzanne Cahill
Ho anche contribuito al libro della professoressa Suzanne Cahill “Dementia and Human Rights”. Questo libro ci chiede di abbandonare il tradizionale punto di vista per promuovere invece un approccio basato sui diritti umani.
Questo libro arriva al momento giusto perché continuo a sentire storie e testimonianze di libertà negate sulla pelle di persone con demenza, vittime di abusi fisici, psicologici e finanziari. Siamo tutti a conoscenza di casi di persone che sono state derubate o fisicamente abusate da persone che le avevano in cura, o che sono state minacciate, forzate o costrette in qualche modo e quindi sottoposti ad abusi emotivi e psicosociali.
La società deve vigilare su questi abusi di diritti umani. Le organizzazioni, i sistemi e le singole persone devono lavorare per comprendere le nostre volontà e preferenze.
Voglio essere ascoltata. Voglia che la mia voce sia ascoltata. Voglio prendere decisioni che riguardano la mia vita e, se ho bisogno di supporto, voglio una persona che mi assista a prendere le mie decisioni, come può essere un fiduciario o un amministratore di sostegno. Voglio il controllo della mia vita.
Un diritto è qualcosa che non richiede una giustificazione, ma è qualcosa di intrinseco – vale a dire, non è qualcosa che qualcuno ti può o meno conferire. Tuttavia, parlandone con Suzanne durante la stesura del suo libro, mi sono venuti in mente tanti esempi nella mia vita in cui mi sono dovuta battere per il riconoscimento dei miei stessi diritti. E’ stato importante che la mia voce e quella di altre persone come me siano state ascoltate da Suzanne mentre scriveva il suo libro. Come ha osservato Steven Sabbat, il libro di Suzanne non riguarda “l’altro con una diagnosi di demenza” ma riguarda tutti noi e la nostra umanità condivisa da conservare e rispettare – o da perdere.
Penso che questo sia il miglior modo per concludere. Grazie per avermi ascoltato.