“Sig. Giovanni*, le piace questa disposizione dei libri?”
“No!”
“Dai, cambiamo tutto allora”
“Va bene”.
A Sine Modo l’aria è pulita e il silenzio è padrone. I suoi ettari di verde comprendono un orto, uno spazio per gli animali – gatti, caprette, asini e galline, un piccolo campetto per giocare a calcio e una rialzatura con dei gazebo circolari di legno massiccio. Ci sono poi una casa di accoglienza, una casupola per l’arteterapia ed una falegnameria.
Sembra davvero un posto senza limiti, come suggerisce il nome latino “sine modo”.
Giovanni è un signore di 75 anni con una diagnosi in accertamento di afasia progressiva primaria a variante non fluente/agrammatica (nfvPPA). È con noi a Sine Modo da qualche tempo – ovvero da quando una costola del Progetto FENICE ha reso possibile la sperimentazione di un Centro Diurno all’interno della Centro di Accoglienza che è Sine Modo.
Sine Modo APS offre accoglienza a persone in situazione di disagio sociale ed economico dal 2002. Dispone di 11 posti letto e ospita nel centro residenziale adulti maschi provenienti dalle situazioni più disparate, spesso da contesti di tossicodipendenza, povertà economica e scarso supporto sociale.
Ogni mercoledì dall’ottobre del 2021 ospita alcune persone con una diagnosi di demenza o disturbo neurocognitivo per un Centro Diurno sperimentale. Tra queste persone c’è anche Giovanni.
Insieme a lui, quasi ogni mercoledì ci sono anche Diego* e Giuseppe*. Ogni tanto, si aggiunge anche Alessio* che non ha una diagnosi di demenza, ma è reduce da un vecchio incidente d’auto che ha avuto un impatto sulla sua quotidianità e sulle sue abilità cognitive.
Diego, 58 anni, ha una diagnosi di demenza frontotemporale (FTD). Giuseppe, 54, ha una sotto-variante della demenza frontotemporale chiamata afasia progressiva primaria a variante semantica (svPPA), una “sorella” della forma di demenza che ha colpito Giovanni.
Giovanni, Diego e Giuseppe hanno tutti diagnosi di demenza che non sono prevalenti quanto la malattia di Alzheimer (AD) – malattia che da sola rappresenta almeno il 60% di tutte le forme di demenza conosciute – ma sono tuttavia abbastanza diffuse, sia in Italia che altrove nel mondo. Quello che però rende le circostanze di Diego e Giuseppe ancora più particolari è l’esordio: per entrambi la diagnosi è arrivata ben prima dei 65 anni (in questi casi si parla di demenza a esordio precoce o early onset dementia / young onset dementia).
Per i servizi territoriali, Giovanni, Diego e Giuseppe sono “soggetti fragili” che hanno bisogno di una mano, un supporto socio-assistenziale, per vivere una vita dignitosa e di senso. Tuttavia, proprio perché sono così giovani rispetto a chi di solito riceve una diagnosi di demenza (solitamente ben al di sopra dei 65 anni), è più difficile trovare ed allocare delle risorse che rispondano ai loro bisogni. I professionisti magari si trovano, ma mancano gli spazi, i fondi e la cultura di quello che si può fare con chi è ancora nel bel mezzo della sua vita e vive l’impatto di diagnosi di questo tipo.
Ovviamente la vita non si esaurisce di fronte alla diagnosi, ma questa affermazione non è poi così scontata.
Tanto per iniziare, ogni persona che convive con una qualsiasi malattia – demenza compresa – è molto più della sua diagnosi. Ad esempio, Giovanni è un signore che ama ancora la vita, che ha una forte passione per le piante officinali. Nella sua vita ha fatto di tutto, tra cui il bibliotecario in un paesino di montagna vicino al fiume Serio (BG). Nel suo caso, andare oltre la diagnosi significa aiutarlo a continuare a vivere una vita attiva e ricca di attività che lo gratifichino. Vale a dire, attività che abbiano un senso per lui, che rispondano non solo ai bisogni strettamente clinici associati alle sue disabilità cognitive, ma anche a bisogni legati alla sua autonomia, al vivere relazioni che nutrono la sua quotidianità e al sentirsi ancora utile agli altri.
Quello di cui ha bisogno è quindi una forma di cura e supporto che va ben oltre il concetto tradizionale di riabilitazione.
L’attenzione alla persona dietro alla malattia
La riabilitazione con le persone con demenza è impossibile. L’ho sentito tante volte anche nei circoli universitari. Più generalmente, il presupposto che è alla base di questa affermazione permea gran parte della cultura riguardante le persone con una diagnosi di demenza: demenza equivale a vita che appassisce e su cui è inutile continuare ad investire.
Perchè dovrebbero quindi essere creati e finanziati dei servizi se la vita finisce?
Ma è davvero così? Cosa ne sarebbe se per la gestione delle demenze se provassimo ad allargare l’orizzonte, in modo da abbracciare più contesti riabilitativi, andando oltre la visione tradizionale della riabilitazione secondo cui a “deficit” corrisponde solo una “funzione da riabilitare”?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la riabilitazione1 come una “strategia sanitaria centrata sulla persona, che consiste di un set di interventi atti a ottimizzare il funzionamento e a ridurre il livello di disabilità di individui con problemi di salute in relazione al loro ambiente, che esperiscono delle limitazioni nel loro funzionamento in tutto il processo di presa in carico e nel corso di tutta la vita”.
Come vediamo, il concetto di riabilitazione promosso dalla OMS è molto più ampio di ciò che si tende a pensare. È focalizzato sulla centralità della persona, sul suo funzionamento, non è limitato ad un momento specifico ma prende in considerazione tutta la vita.
Da questo punto di vista, la riabilitazione acquista, quindi, una valenza psicosociale in cui la persona si confronta con un ambiente che può facilitare o meno le sue limitazioni e, conseguentemente, le sue disabilità.
L’ambiente, dunque in modo esteso include anche Noi, persone che ci confrontiamo con chi ha una diagnosi di demenza e possiamo mettere in atto degli interventi che limitano le conseguenze di una diagnosi – ovvero la sua (o le sue) disabilità. Questo approccio richiede innanzitutto di mettere al centro la persona, con tutte le sue caratteristiche, risorse e qualità, cercando di offrire un supporto complessivo che si estende anche ai suoi familiari e caregiver. L’obiettivo è promuovere benessere complessivo, vita indipendente e inclusione sociale, secondo le indicazioni del Piano di Azione Globale delle Demenze 2017-20252 della stessa OMS.
Quando seguiamo queste indicazioni ed evidenze, succede per esempio che la riabilitazione di Giovanni non segue il classico tragitto della riabilitazione neuropsicologica – vale a dire, una riabilitazione secondo cui, se il problema (deficit o disabilità) è in seno al linguaggio, l’unico lavoro da svolgere è centrato esclusivamente sul linguaggio.
L’approccio centrato sulla persona richiede di fare allo stesso tempo un passo indietro e un passo avanti per abbracciare l’interezza della persona. Da un lato predilige attività meno “specifiche” dal punto di vista strettamente clinico – ad esempio, nel caso di Giovanni, non solo centrate sul linguaggio ma anche finalizzate a mantenere funzioni complessive della vita quotidiana. Non si vuole cioè riabilitare una funzione specifica, ma si vuole invece stimolare la persona – il nostro Giovanni – nella sua totalità, in modo che abbia più risorse a sua disposizione per svolgere attività più coinvolgenti e più attinenti ai suoi interessi specifici. Ma la cosa ancora più importante, è che la mobilitazione di tutte queste energie non viene imposta da noi esperti a lui “paziente”: tutto il lavoro viene fatto in modo tale da coinvolgere lo stesso Giovanni nella scelta delle attività su cui desidera mettersi in gioco, in un’ottica di co-progettazione e dignità della persona.
In questo modo, oltre a continuare a stimolare l’area cognitiva che è stata compromessa dalla malattia, si lavora anche con la persona nella sua complessità – e quindi lavorando sulle sue risorse ancora intatte, sui suoi desideri e sulle sue aspettative. Lavorare con la persona per co-progettare un percorso di riabilitazione complessiva significa in primis lavorare sulla sua motivazione alla cura e alla prevenzione del rischio di ulteriori aggravamenti.
Una riabilitazione complessiva include anche interventi che preservano il ruolo della persona all’interno della sua micro-comunità di appartenenza, dandogli un peso specifico, un’operatività consona ai suoi interessi ed una visione di futuro condivisa, limitandone le limitazioni.
Novilunio lavora da anni a questo tipo di interventi con l’intento di favorire una progettualità che include e sollecita le persone a diventare protagonisti della loro “ripartenza”. Sine Modo APS ci ha permesso di realizzare un progetto centrale alla nostra mission.
Non è un lavoro sulle macerie, bensì un lavoro di cuore sulle fondamenta.
Dalla teoria alla pratica
Per spiegare meglio come funziona il paradigma riabilitativo a Sine Modo farò qualche esempio pratico.
Giovanni era bibliotecario? Lo è diventato nuovamente a Sine Modo. Guarda caso, mentre impostiamo il lavoro è lui che insegna a noi e non il contrario. È lui cioè che ci racconta del metodo di classificazione decimale Dewey (uno schema di classificazione bibliografica per argomenti organizzati gerarchicamente) che ha imparato lavorando sul campo; è sempre lui che ci dice di utilizzare le etichette per catalogare i libri, così come è sempre lui che costituisce, supervisionato dal sottoscritto, le regole della biblioteca in modo che possa essere fruibile per tutti.
Secondo lo stesso principio, visto che Sine Modo lo permette, è stato creato uno spazio apposito per le piante officinali, che Giovanni coltiva (quasi) ogni settimana.
Allo stesso modo, è stato spulciando nella vita pre-diagnosi di Giuseppe che abbiamo scoperto il suo amore per la pittura e per l’universo delle creazioni artistiche.
In un’ottica di riabilitazione della persona e del suo ruolo, il primo step è stato quello di riconoscergli queste preziose competenze, mentre il passaggio successivo è stato quello di affiancare un’arteterapeuta che lavorasse con lui per valorizzarle e tradurle in un’attività riabilitativa.
D’altro canto, Diego fa le pulizie, dà una mano in cucina e nel salone, prende la posta, raccoglie le zucche che crescono nell’orto: è il factotum di Sine Modo e si è “incastrato” con perfetta armonia nei suoi meccanismi.
Alessio invece ha frequentato il gruppo per qualche settimana e si è concentrato soprattutto su alcune attività di supporto alla fattoria sociale, dando una mano per la gestione dell’orto e degli animali. Grazie a queste attività non solo è riuscito a uscire da un forte isolamento sociale, ma ha anche assunto un ruolo per lui significativo per tutto il tempo che è stato con noi.
Giuseppe e Giovanni i mercoledì si trovano nel salone principale di Sine Modo: il primo fa arteterapia, il secondo invece sistema e cataloga la piccola biblioteca. I due interagiscono poco, anche a causa delle loro diagnosi di afasia progressiva primaria. Tuttavia, attirano un circolo di persone incuriosite dalle loro attività – si tratta di ospiti residenziali che si trovano così a dare una mano o a passare del tempo con loro oppure altre persone che frequentano il centro diurno.
Capita così che nei quadri di Giuseppe vengano raffigurati anche Giovanni e Diego o che Diego si dedichi all’arteterapia nello stesso momento in cui la stia facendo anche Giuseppe. Così come capita che Diego e Alessio diano una mano a Giovanni per sistemare i libri e suggeriscano modi per abbellire la biblioteca.
Il senso del nostro lavoro
Nella ricca operosità di queste mattinate è facile scordarsi che la visuale da cui si imposta il lavoro riabilitativo è diversa dal solito mondo già conosciuto. Nelle risate, nelle interazioni tra gli ospiti, nell’orgoglio scintillante negli occhi alla fine di una mattinata produttiva si intuisce che ciò che avviene dentro e fuori le mura di Sine Modo stia dando valore a queste persone.
Lo riconosco quando accompagno a casa Giuseppe che mi abbraccia stringendomi forte o quando la moglie di Giovanni mi chiede “Ma sono io o lo vedo più vivace e più chiaccherone?”.
Sono queste le cose che ci fanno capire che è avvenuto un cambiamento concreto nella qualità della vita di queste persone. Questo è forse l’aspetto che più tradisce la complessità e al contempo la semplicità che caratterizzano un percorso di riabilitazione psicosociale. È incredibilmente complesso ma alla fine si riduce ad acqua e pane. La neuroscienza torna alle basi e riparte dalla persona.
J.D. Salinger, il celebre autore de Il Giovane Holden, nel suo Seymour. Introduzione ad un certo punto scrive:
“Fammi stare alzato fino alle cinque soltanto perché tutte le tue stelle sono visibili in cielo, per nessun altro motivo.”3
La riabilitazione psicosociale segue più o meno lo stesso principio: dare a Giuseppe, Giovanni, Diego ed Alessio – e a chiunque voglia fargli compagnia – la possibilità di rendere visibili le loro stelle.
Noi siamo lì, svegli ad accorti, non per permettere loro di brillare – quello succede senza il nostro intervento – ma per far sì che qualcuno guardi quella luce.
Omar Ferro
Psicologo ed esperto in neuropsicologia clinica e sperimentale
* I nomi delle persone citate in questo articolo sono stati cambiati a tutela della loro privacy.
1. Gimigliano, F., & Negrini, S. (2017). The World Health Organization” Rehabilitation 2030: a call for action”. Eur J Phys Rehabil Med, 53(2), 155-168.
2. World Health Organization. (2017). Global action plan on the public health response to dementia 2017 – 2025. Retrieved 29 April 2022, from https://www.who.int/publications/i/item/global-action-plan-on-the-public-health-response-to-dementia-2017—2025
3. Salinger, J., & Cerrone, R. (2011). Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: introduzione. Torino: Einaudi.