Settimana scorsa la rivista online “Per Lunga Vita” di Lidia Goldoni ha pubblicato un mio articolo intitolato “L’altro volto della demenza” in cui descrivo 5 preziosi insegnamenti che ho appreso in questi anni di Novilunio ascoltando le testimonianze delle persone con demenza.
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Se non mi fossi avvicinata al mondo di chi vive la malattia dal di dentro, non avrei mai potuto cogliere quanto potenziale di resilienza va sistematicamente perduto e quanta vita viene sprecata dopo la diagnosi perché considerata indegna di essere vissuta. Le persone con demenza che ho avuto la fortuna di incontrare in questi anni mi hanno innanzitutto insegnato che la speranza di esserci è viva fino all’ultimo respiro che ci è concesso, anche quando la malattia è incurabile. Mi hanno anche insegnato che l’amor proprio e la dignità non muoiono quando si riceve una diagnosi tanto infausta. Anzi, è proprio in quei momenti così dolorosi che le nostre risorse umane più fondamentali ci vengono in aiuto – basta saperle cogliere e valorizzare. Basta non rimanere soli con il cerino in mano, perché tutti hanno già deciso che sei spacciato.
L’attivismo portato avanti da centinaia di piccoli e grandi eroi con demenza in tanti Paesi del mondo è per molti versi un grido di vendetta. Con le loro battaglie e testimonianze, ci ripetono un mantra che spero riusciremo ad integrare al più presto anche noi italiani. E’ come se ci dicessero: ci siamo anche noi, vogliamo essere trattati come persone e non come casi da gestire che al massimo possono aspirare alla friendliness – all’amicizia – di alcuni bravi cittadini. Come spesso ripetono le mie super-eroine internazionali, Kate Swaffer e Helen Rochford Brennan, l’inclusione sociale e la dignità non sono una questione di benevolenza bensì di rispetto dei diritti umani fondamentali.
Il fare di necessità virtù, anche quando vivi solo e hai l’Alzheimer, è qualcosa che ho imparato soprattutto leggendo il blog di Wendy Mitchell. Con la sua immensa dolcezza e umanità, Wendy è riuscita a spiegarmi, forse meglio di chiunque altro, quanto sia difficile e allo stesso tempo necessario prendere consapevolezza di se stessi, di ciò che per noi è veramente importante qui e ora, e coltivarlo come meglio possiamo per non farci spazzare via dalla malattia e dalla sofferenza. Se sapete l’inglese, invito tutti a leggete la sua autobiografia, Somebody I used to know, in cui spiega come è arrivata al suo concetto personale di “ripartenza” dopo la diagnosi e come tale evoluzione le ha permesso di riscoprire il suo posto nel mondo.
L’anno scorso più o meno in questo periodo io e Cristian abbiamo trascorso qualche giorno spensierato insieme a Mary Radnofsky, con cui abbiamo parlato di diritti (alla diagnosi e alla riabilitazione) e di progetti ad ampio raggio per riportare un po’ di umanità e sostegno concreto alle famiglie. Anche Mary vive sola e può contare solo sulle sue forze e su quelle del suo adorabile cane-assistente, Benjy, per andare avanti nelle sue fatiche quotidiane. E’ grazie a lei e alle testimonianze di altre persone con demenze rare che ho scoperto quanto l’impatto della malattia sulle funzionalità di ognuno sia molto diverso a seconda del tipo di diagnosi, dell’età e delle risorse personali di chi si ammala. Ad esempio Mary ha una demenza chiamata CADASIL che causa tra le altre cose forti emicranie, nausea, vomito e ripetuti infarti cerebrali profondi. Nel suo caso, i problemi di memoria ci sono ma non sono così importanti come nell’Alzheimer… dico questo solo per fare un esempio, ma potrei continuare all’infinito visto che le cause di demenza irreversibile accertate sono oltre un centinaio. Eppure si continua a parlare quasi sempre e solo di Alzheimer. Anche questo per me è un processo sistemico di esclusione. Me lo hanno insegnato le persone con demenza ma anche tutti i famigliari che si rivolgono a noi perché il loro caro si è ammalato di una demenza più rara e non sanno dove andare a parare.
Lo scorso giugno abbiamo organizzato una bellissima settimana di full immersion nella co-progettazione delle tecnologie per le demenze insieme ai nostri amici irlandesi Kathy Ryan e Ronan Smith. Per noi è stato un dono dal cielo poter trascorrere tanto tempo insieme a loro e discutere su come è opportuno e auspicabile aiutare chi si ammala così giovane (entrambi hanno poco più di 50 anni) e riceve una diagnosi in una fase così iniziale della malattia. Entrambi conducono ancora vite piene di impegni sociali e di attivismo. Sono quindi ancora abbastanza in grado di prendersi cura di se stessi, ma la malattia di Alzheimer che li ha colpiti li obbliga ad andare a velocità diverse rispetto alle nostre, a prendersi cura di se stessi con più cautela, ad adattare continuamente le loro strategie compensative e a difendersi ogni singolo giorno dalle paure di un eventuale peggioramento. Sia Kathy che Ronan sono terribilmente preoccupati per l’impegno di cura che dovranno imporre ai loro familiari in un futuro forse non troppo lontano. Spesso si dà per scontato che le persone con demenza non si preoccupino dell’impatto della loro malattia sugli altri. Ma finora questa non è stata la mia esperienza. Sono convinta che nessuno di noi vuole sentirsi un peso per gli altri: la nostra autonomia ce la conquistiamo con tanta fatica fin dal primo giorno in culla – credo sia la cosa più difficile a cui rinunciare anche (o soprattutto) quando si ha una malattia degenerativa.
E se ci sono ancora persone che credono che questo tipo di esperienze di malattia riguardino solo gli altri oltreconfine (!), vorrei ricordare anche l’esempio di Antonio Candela che pochi mesi fa ha pubblicato il libro “Io sono ancora qui” in cui racconta come ha vissuto le prime fasi della sua malattia fino alla diagnosi di demenza a esordio precoce . Da qualche mese Antonio condivide le sue riflessioni su demenza e dintorni sul suo blog personale, ma è ancora più attivo su facebook dove da ormai diverso tempo coltiva una piccola comunità di sostenitori.
A proposito di esperienze italiane, se c’è una cosa che mi ha insegnato Gianni Zanotti (ma anche sua moglie Claudia) è che la dignità, soprattutto quando l’hai coltivata per tutta una vita con tanta cura e consapevolezza, rimane un centro di gravità permanente anche quando hai l’Alzheimer. “Perché dovrei vergognarmi di dire che sono ammalato di questa malattia?” ci chiede giustamente Gianni… Già, perché tanta vergogna per qualcosa di cui nessuno ha colpa?
Voglio concludere questa carrellata un po’ disordinata di ricordi e insegnamenti con il messaggio che ci hanno trasmesso persone straordinarie come Mick Carmody, Harry Urban, George Rook, Howard Gordon e tanti altri che fanno parte di gruppi di auto mutuo aiuto online: il cambiamento possibile nasce dalla forza del gruppo. Ispirati dal loro esempio, quest’anno siamo riusciti a lanciare uno dei progetti che ci sta più a cuore – siamo riusciti a formare il primo gruppo online di persone con demenza. Per ora il gruppo è piccino, ha solo 4 membri, tutti uomini, tre dei quali con una demenza a esordio precoce. Eppure, già le prime prove di trasmissione che abbiamo fatto negli scorsi mesi, ci hanno restituito tutto il senso della speranza riposta in questi anni di incubazione. Ritrovarsi in un luogo protetto dal giudizio e dalle incomprensioni degli altri, il poter parlare apertamente cuore-a-cuore con qualcuno che vive un’esperienza di sofferenza molto simile alla tua, apre porte che sono inaccessibili a noi operatori o caregiver. Ed è qui secondo me che possono nascere cose belle che cambiano il mondo. E’ coltivando la nostra capacità di stare con noi stessi e con altri compagni di viaggio che possiamo immaginare un futuro migliore. Prima però le cose bisogna dirsele con tutta la sincerità di cui siamo capaci. Il gruppo è il nostro punto di partenza… chissà dove arriveremo.